giovedì 30 dicembre 2010

Buon 2011 da Mondi Immaginari

A parte alcune disavventure personali che non è il caso di menzionare qui, il 2010 di Mondi Immaginari si è segnalato per una novità, se così la possiamo chiamare.
Non ho assegnato il "Premio Immaginario" per il miglior esordiente italiano, e penso che non lo farò nemmeno negli anni seguenti. Per fare una valutazione avrei dovuto leggerne diversi, e non l'ho fatto. Perché?
Perché, al di là di qualche sorpresa positiva, il livello generale degli esordienti è piuttosto basso (mi espongo ovviamente alla medesima critica, se riuscissi a farmi finalmente pubblicare...) e non ci sono forti particolarità che spingano a seguire uno scrittore italiano piuttosto che uno straniero. Non che debba esistere per forza una "scuola italiana" del fantasy, ovviamente, anzi forse è meglio che non esista. Ma stabilito questo non c'è allora alcun motivo (salvo qualche saltuario brivido di entusiasmo patriottico) per leggere un italiano piuttosto che un anglosassone o uno scrittore di altra nazionalità.

O meglio un motivo di scelta c'è, quello della qualità: e in tal caso è più sicuro preferire autori già noti agli esordienti, salvo quelli che abbiano veramente "fatto il botto," e anche lì bisogna stare molto attenti. E se proprio si vuol leggere un esordiente, meglio correre il rischio con un anglosassone piuttosto che con un italiano. Come mai? I motivi sono parecchi, le colpe (se così vogliamo chiamarle) probabilmente se le devono spartire gli autori con le case editrici e anche (non ultimi) con i lettori.

Una mancanza a cui sto cercando di rimediare è lo scarso uso (pigrizia!) del sito associato al blog, la Vetrina di Mondi Immaginari. Oltre al fantastico talvolta vorrei parlare di storia, qualche volta di politica (ma poi mi viene la nausea). Spero di proporre qualcosa per l'anno prossimo...
Una cosa che finalmente ho fatto, è aggiornare i link (di lato sulla destra) che permettono di andare agli elenchi di recensioni divise per libri italiani, libri stranieri, giochi ecc...).
Meglio tardi che mai.

Buon 2011 a tutti.

domenica 26 dicembre 2010

I Racconti di Sanctuary, e gli Ebook

Novità nella "Vetrina di Mondi Immaginari" (ovvero il sito collegato al blog).
I Racconti Perduti di Sanctuary, che avevo ospitato per un annetto, hanno avuto permanenza più lunga (avrei douto toglierli quest'estate) ma adesso sono definitivamente rimossi. Non è stata una cattiva iniziativa: è arrivata qualche decina di lettori per i volonterosi non-selezionati (tra questi, il sottoscritto) dell'antologia Asengard. Da ringraziare anche Fantasy Magazine che ha dato pubblicità alla mia iniziativa.

Un nuovo articolo raccoglie due delle mie elucubrazioni riguardo al futuro dell'editoria nell'era del libro digitale. Se avete già letto i miei post, di nuovo c'è solo un pugno di righe iniziali dove faccio un paio di conti su quello che sta succedendo e su come si collochino rispetto alla realtà le mie passate ipotesi. Visto che il DRM più o meno la sta facendo da padrone non c'è da essere troppo ottimisti, per il momento.

Se non avevate letto i miei articoli (un annetto e rotti fa) c'è abbondante pane per i vostri denti. Se c'è qualche commento, per favore postatelo qui.
Pubblico volentieri articoli in materia, sempre che qualcuno abbia voglia di scriverne e propormeli.

giovedì 23 dicembre 2010

Fatti di Sangue

Fatti di Sangue è una raccolta di tre racconti di Angelo Cavallaro (ovvero sommobuta, blogger in quel di Napoli o dintorni) distribuita gratuitamente formato ebook e reperibile a questo indirizzo:
http://www.lulu.com/product/ebook/fatti-di-sangue/11716272
Dei tre il migliore è il primo: Game Over, che rappresenta bene il rimbecillimento da videogame nella furia omicida del videogiocatore frustrato per essersi visto sottrarre lo scettro di più bravo del reame da un misterioso nuovo arrivato. Divertente la comparsa dell'autore (potremmo chiamarlo un cameo?) col nickname di blogger nelle schermate del gioco, dove viene massacrato. Anche la forma e i dialoghi sono resi più che adeguatamente.
Il Presepe è un po' più debole, anche formalmente, l'idea di fondo su cui si basa mi è parsa un po' gratuita e il finale piuttosto scontato.
Il Vampiro mi è piaciuto perché appare un po' come presa in giro della mania del momento, con questi vampiri così affascinanti che i loro svantaggi passano decisamente in secondo piano. Il protagonista lo capisce e vuole essere vampirizzato. Qualcosa di non molto diverso avevo scritto io nel mio commento a Twilight.
Nel complesso la raccolta è una lettura piacevole, rapida e per giunta gratuita, perciò posso sentirmi di consigliarvela.

sabato 18 dicembre 2010

Le distopie di 35 anni fa

Rollerball è un film di fantascienza che mi rimase molto impresso per un semplice motivo: lo vidi da ragazzino e il livello di violenza era molto insolito per l'epoca. Parlo ovviamente del primo, quello del 1975, e non del remake osceno fatto oltre 20 anni dopo.
Il film si avvale della regia di Norman Jewison (quello del primo Jesus Christ Superstar, e pure qui bisogna distinguere, perché anche di quel film è stato fatto un goffo remake), e di una buona performance di James Caan, nei suoi anni migliori. Ottimo uso di musica classica per la colonna sonora. Pessimo uso di un dialogo iniziale (dopo la prima partita) dove vediamo Caan parlare con un dirigente che sarà il suo antagonista principale: uno degli infodump più pesanti e palesi della storia del cinema, pessimo modo di iniziare un film. Forse era meglio mettere delle scritte in sovraimpressione all'inizio, come si fa tanto spesso (senza che nessuno si scandalizzi).

In un mondo dove non ci sono più i poveri ma governa un potere anonimo che crea una inconsapevole insoddisfazione nella gente (che assume psicofarmaci in continuazione), Caan interpreta Jonathan, stella di uno sport violentissimo diventata "troppo" importante in un mondo dove, bandite le guerre, la violenza è confinata in passatempi cretini. Peccato che il passatempo cretino per eccellenza, il Rollerball che consumava i suoi campioni velocemente, ora ha creato un personaggio che per la gente è un eroe. Non un eroe scomodo, all'inizio. A Jonathan hanno portato via la moglie perché il dirigente di una Corporazione se n'era invaghito, senza che lui protestasse (le Corporazioni governano tutto, non ci sono più gli stati, ed è stata fatta un'operazione di riscrittura del passato in stile orwelliano), e all'inizio sembra solo insoddisfatto e confuso, ma non ribelle di fronte all'intimazione di lasciare il Rollerball. (Da qui in poi: SPOILER). Caan è molto bravo a interpretare questo stato d'animo di Jonathan che comincia a "prendere coscienza" e a cercare di indagare il mondo attorno a sé: egli non ha, visto il mondo da cui proviene, gli strumenti culturali per sviluppare più di tanto questa consapevolezza (per dirla in maniera raffinata), e del resto non trova nessuno che lo aiuti (sembrano tutti ignoranti e superficiali, un po' come in Fahrenheit 451). Tuttavia saprà andare dritto al sodo, vincendo l'ultima partita che è stata trasformata in un gioco al massacro manipolando le regole allo scopo di sconfiggerlo.

Così, mentre Jonathan sembrava un personaggio accomodante e facilmente manipolabile, che accettava le amanti inviategli dalla corporazione limitandosi a rivedere le immagini filmate della moglie che gli è stata tolta, e sfogava tutto nel gioco, ora diventa cocciuto, cerca ostinatamente la verità e si oppone alla volontà dei padroni del mondo.

Fermo restando che per il contenuto di violenza questo film dovrebbe essere vietato ai minori, io l'ho trovato bello; allo stesso tempo molto valido per alcuni aspetti, e molto curioso per come sia, da altri punti di vista, così datato e ingenuo. Innanzitutto c'è la ricerca della verità storica da parte di Jonathan, e la scoperta che il passato oltre che manipolato a piacere è praticamente ormai dimenticato, depositato nelle memorie di un'intelligenza artificiale che lo nasconde; il tema del libero arbitrio, dell'impossibilità di essere felici anche quando, superficialmente, si vive in una società che soddisfa tutti i bisogni; la rivincita dell'individualità incarnata dal campione di Rollerball è allo stesso tempo sinistra, dal momento che si tratta di un eroe che uccide in uno sport sanguinario. Le stesse riflessioni di Jonathan mentre osserva un compagno di squadra ridotto a un vegetale in coma sono esplicite, quando sospetta che quella sia l'unica felicità possibile, vivere come una pianta senza pensieri. Non sempre queste tematiche sono portate avanti in maniera avvincente o convincente, a volte sono troppo semplificate, ma il film non è affatto superficiale, pur con questo curioso miscelare ragionamenti e scene di azione brutali.

Rollerball peraltro offre tanti paradossi, visto adesso. In parte era una contestazione al welfare state "dalla culla alla tomba" che poteva esser visto, ai tempi, come un probabile futuro dell'umanità. Comodo ma spersonalizzante, soffocante.
Oggi che stiamo finendo nella palta così velocemente dal punto di vista economico, un mondo di super aziende che ti assicurano un decente benessere (purché non rompi troppo le scatole e le lasci comandare) potrebbe sembrare quasi un paradiso. Guarda un po' che preoccupazioni si facevano, trentacinque anni fa.

Buffa anche l'importanza che vien data allo spettacolo televisivo "tutto per Jonathan" come se uno show dovesse avere chissà quale influenza, e curioso il fatto che un personaggio tutto sommato accomodante venga visto come un pericolo. Oggi vediamo il mondo "corporate" fare i salti mortali per aggiudicarsi un personaggio celebre come testimonial. Ammettiamo che in un mondo in cui l'individualismo è stato volutamente smorzato ci si comporterebbe in modo diverso, ammettiamo anche che le Corporazioni del film (che hanno in passato avuto delle guerre fra loro) debbano stare attente a rispettare una delicata etichetta nei loro rapporti. E Jonathan è simbolo di una sola di esse, (la Corporazione dell'Energia con sede a Huston, stesso posto da cui prende il nome la squadra) quindi creerebbe un problema di equilibri con le altre. Ma comunque resta la sensazione che sarebbe più conveniente aspettare che diventi vecchio e debba ritirarsi comunque, piuttosto che volerlo eliminare a tutti i costi.
Quanto meno, il film fallisce nel creare l'idea di un mondo dove l'individualismo sia stato messo ai margini. Anzi viene messa in evidenza l'ammirazione per i giocatori di Rollerball. Sono visti come dei superuomini, l'importante è che non stiano in circolazione troppo a lungo da diventare una specie di supereroi.

Esiste una sola donna dirigente nel gruppo dei capi di alto livello (si vede in una teleconferenza), per il resto le donne sono lavoratrici (alcune infermiere che si vedono nel film, una massaggiatrice...) oppure bellissime donne con sorrisi stereotipati (mogli, amanti...) che danno un'idea di donne oggetto di lusso. Non poi molto diverso dalla realtà di oggi, forse.

La scena in cui i festaioli (donne in prima fila!) bruciano gli alberi per divertimento poteva esser fatta meglio, resta importante per creare il tono di una società alienata. Anche la scena dello scienziato che dovrebbe svelare la realtà storica a Jonathan e va in crisi di nervi di fronte al computer che nega le notizie è un momento che va dritto allo scopo, sebbene la scena sia ridicola con gli occhi di oggi. Un altro paio di tocchi di questo genere, magari più azzeccati, e avremmo avuto un ritratto della società meglio comprensibile, il che avrebbe conferito maggior realtà e spessore al film.

Al coperto della loro soffice dittatura, i dirigenti della corporazione fanno i loro porci comodi: lo si vede da come hanno spezzato il matrimonio di Jonathan che pure è un privilegiato (tener presente comunque che la ex moglie ha una differente spiegazione). Ma i loro comodi li fanno dopo aver provveduto ai bisogni essenziali di tutti. Non sembrano neanche un po' i pazzi criminali di oggi, che si giocano in borsa, con i derivati, il diritto a una scodella di riso per milioni di persone. Sono antipatici, non si riesce però a odiarli davvero.

Curioso anche il fatto che, nonostante in qualche scena la Corporazione tolga i guanti bianchi e digrigni i denti nei confronti di Jonathan, dimostrando che in fin dei conti il potere non perde mai la propria brutalità, nella riunione (telematica) fra grandi dirigenti si preferisca togliere le regole alla finale del campionato, e sperare che il campione ci rimanga secco, piuttosto che sporcarsi le mani con un omicidio politico.

Da questo punto di vista il film visto oggi è indebolito in uno degli aspetti principali di allora, la "lotta contro il sistema," ma questo offre ancor più grande risalto a un'altra riflessione: al fatto che l'uomo resta sempre una bestia che ha bisogno di affrontare problemi, di combattere, di distruggere o autodistruggersi, e la sua violenza difficilmente può essere esorcizzata (un simile discorso lo faceva anche l'Agente Smith in Matrix, ricordate? Quando diceva che era stato sperimentato un mondo paradisiaco per la Matrice, ma agli uomini che dovevano esserne prigionieri non piaceva). Jonathan il ribelle che "riafferma l'uomo" in un mondo che cercava di vivere una vita forse noiosa ma libera della violenza che lo ha devastato nel passato, potrebbe essere la causa di nuove stragi e nuove sofferenze.
Curioso come oggi Rollerball sia un film ancora interessante, ma un altro film rispetto al giorno in cui uscì nei cinema.

venerdì 17 dicembre 2010

martedì 14 dicembre 2010

Gabe Chouinard, chi è costui?

Colgo l'occasione di un articolo interessante (vecchio, ma l'argomento può essere attuale) per portare la vostra attenzione sulla rivista in inglese Locus (dove era stato pubblicato) e sull'ottima pagina Magrathea (valido portale sul fantastico, in italiano) dove l'ho trovato tradotto.
L'articolo, di Gabe Chouinard, opinionista a me sconosciuto, afferma praticamente che nessun autore di fantasy epico ha saputo far di meglio che: o imitare Tolkien, o cercare una via diversa, ma facendo peggio di Tolkien e fallendo nel tentativo di creare una comparabile grandiosità.

Ognuno può pensarla come vuole; io non sono d'accordo. Trovo anche che sia un buon esempio di come usare troppe categorie possa confondere una riflessione.
Ho avuto l'occasione di avere uno scambio di opinioni sulla questione. Segnalo il tutto a questo indirizzo.

venerdì 10 dicembre 2010

Un maiale che non vola è solo un maiale

Dopo un sacco di tempo, arriva sugli schermi italiani (e col contagocce) il film di Miyazaki, Porco Rosso, un'epopea d'avventura che si svolge nell'Adriatico con elementi di fantasia mescolati a un'ambientazione italiana non proprio precisa ma nemmeno così mal riuscita.
Questo anime mescola i toni epici di una grande storia di eroi hollywoodiani con la passione del disegnatore per gli idrovolanti e la loro epopea, i dolci paesaggi marini, un'umanità mista di canaglie, gente che se la cava come può, eroi non proprio immacolati e assi dell'aviazione (tra cui un altro "outsider," l'americano venuto a sfidare Porco Rosso). Numerosi omaggi a personaggi dell'aeronautica italiana (e non solo). Anche il nome della banda di pirati, i "Mamma Aiuto," è un riferimento a un modello di aereo italiano e a uno stormo che lo portava in volo.
Ovviamente l'immaginazione corre sfrenata, come accade spesso con gli artisti giapponesi: dopo aver visto tutti i suoi compagni italiani (e un bel po' di avversari) "ascendere in cielo" dopo una battaglia aerea della prima guerra mondiale, il nostro eroe è trasformato in maiale e non si sa bene cosa possa liberarlo da questa maledizione. Peraltro, nessuno sembra trovarci niente di così strano, lui si da delle arie da Humphrey Bogart senza problemi, e le donne non smettono di esserne terribilmente attratte, con molto dispiacere del rivale americano. (Peraltro, è l'unico elemento fantastico in una trama che non rispetta la realtà storica, ma è fatta di elementi realistici, il che del resto è raro per questo regista).

Con la fantasia di Miyazaki l'Adriatico diventa il set per grandi sfide e duelli di eroi romantici e indipendenti, nonché covo di pirati (pirati dell'aria, però), quasi una specie di far west dove però i cattivi non sono poi così cattivi, dove nessuno resta ucciso anche se si sparano raffiche a non finire, dove tutti sono cavalieri verso donne e ragazze, perfino i delinquenti.
Non sono molto per le animazioni nipponiche, ma questo è un capolavoro.

sabato 4 dicembre 2010

Finzioni

Il famoso Borges nella sua produzione ha scritto molti racconti inerenti il fantastico, talvolta con risultati esilaranti, ma chi cerca un facile intrattenimento deve fare attenzione, perché assieme all'elemento bizzarro e fantastico ci sono tutti i discorsi letterari e le tematiche intellettuali di un uomo colto e complesso, e la prosa di Borges, distaccata e fredda, potrebbe non piacere a tutti.

Dopo aver avvertito correttamente i naviganti, due parole sull'autore: uno dei massimi intellettuali sudamericani del '900, Jorge Luis Borges fu influenzato dalla cultura europea e anglosassone per via del padre (per metà inglese). Si segnalò per lo stile surrealista e fantastico con cui indagava la realtà, ma faticò a vivere dei suoi scritti, e riuscì a farsi un bel po' di nemici per l'abitudine di esprimere senza mezzi termini le sue idee politiche conservatrici. Fermamente anticomunista ma anche (e soprattutto) oppositore del populismo peronista, ebbe qualche simpatia di troppo per le giunte militari, il che gli costò probabilmente il premio Nobel. Non so cosa pensarne. Si sa che gli svedesi che assegnano il premio sono dei progressisti spocchiosi e un po' snob, e comunque spesso assegnano quei premi a vanvera perciò il nostro Borges non aveva in realtà motivo di crucciarsi più di tanto, ma gli era proprio necessario andare a una cerimonia con Pinochet?
Borges divenne cieco in età adulta ma proseguì nella produzione artistica fino alla morte. Delle sue opere dispone oggi la donna che sposò poco prima di morire.

In Finzioni le tematiche sono le sue classiche, le ambiguità dei significati che diamo alle cose, il rapporto tra parola (e letteratura) e realtà, la natura del tempo, i misteri e gli enigmi.

Fanno comparsa anche i mondi immaginari in Tlön, Uqbar, Orbis Tertius, racconto basato sull'indagine riguardo a una stranezza, un'enciclopedia "clandestina" creata da vari intellettuali, che immaginando un mondo lo rendono reale, influenzando il nostro. Assai piacevole e stimolante, ma in realtà è un ginepraio di idee filosofiche e politiche e anche un pretesto per lanciare invettive: difficile da comprendere al cento per cento senza conoscere bene tutti i riferimenti.
Nella Biblioteca di Babele si immagina una biblioteca infinita, assurda, e tutte le implicazioni della sua esistenza. In Tre Versioni di Giuda si esplora un'ipotesi teologica quantomeno... azzardata. Con La Morte e la Bussola abbiamo, oltre ai richiami cabbalistici, un altro dei temi più amati di Borges, ovvero l'identità tra carnefice e vittima, richiamata in maniera non evidente anche nel nome di due personaggi. La trama è di tipo poliziesco: parla di un investigatore che segue degli indizi molto sottili, che sembrano lasciati apposta da un assassino, delitto dopo delitto, per farsi prendere. Le cose, tuttavia, non stanno esattamente così. Il Miracolo Segreto parla di un ultimo desiderio, espresso da un condannato a morte (uno scrittore) che vuol terminare la propria opera. Come dice il titolo, il desiderio è esaudito, ma non lo saprà nessuno.

Non so se vi ho incuriosito, ma se volete conciliare la letteratura colta con la passione per il fantastico, questa raccolta è un'ottima occasione.

mercoledì 1 dicembre 2010

Un necrologio e una diatriba

La morte di Mario Monicelli val la pena di menzionarla anche se non si è appassionati di cinema italiano, almeno per due motivi: primo, per un film eccezionale (anche se magari di... scarse pretese culturali) come L'Armata Brancaleone; secondo, per la polemica che aveva portato avanti contro i tagli ai finanziamenti per la cultura.

Dal momento che quella polemica è infuriata recentemente per via di ulteriori decurtazioni, m'è capitato di riflettere sull'utilità dei finanziamenti al cinema italiano: di solito non ci penso un gran che, nel senso che quando leggo delle cifre che vengono sborsate, per poi avere pochissimi film guardabili prodotti nel nostro paese, mi viene in mente solo qualche parolaccia.

Ma se un tale gigante (un gigante del passato, e legato alla commedia all'italiana ormai declinata, ma pur sempre un gigante) ha protestato fino alla fine contro i tagli a questa spesa di denaro, forse è il caso di pensarci un po' di più.

La comparazione con il cinema australiano, che cominciò negli anni '70 a svilupparsi sotto gli auspici di un'agenzia governativa che lo finanziava, potrebbe essere illuminante.

Prima riflessione: è difficile avere un grande ritorno economico. Gli australiani hanno prodotto alcuni film di successo a livello internazionale, come noi non ci sogniamo nemmeno (magari sono aiutati dalla lingua inglese, però il divario rimane fortissimo), eppure nonostante tutto non hanno rotto l'egemonia di Hollywood. Mentre una cinquantina di anni fa negli USA il pubblico si metteva in fila per vedere i film del neorealismo italiano, oggi esiste un sistema di produzione e distribuzione che controlla il mercato in maniera tale da marginalizzare inevitabilmente la concorrenza. De Laurentiis, di recente scomparso, era l'unico italiano che aveva rapporti con quell'ambiente e poteva garantirsi una distribuzione decente. Pertanto oggi difficilmente sarebbe possibile produrre colossal con budget paragonabili ai vari Batman o Avatar e recuperare quei soldi (se anche qualcuno ce li mettesse!).

Seconda riflessione: è difficile creare una scuola locale. Nel mondo globalizzato chi ha delle capacità va a lavorare per chi gli permette di metterle a frutto. Sempre per fare un paragone con l'Australia, che investito nel proprio cinema e visto nascere dei talenti: nomi come Mel Gibson o Nicole Kidman sono legati più a un discorso mondiale che a uno locale. C'è da temere che se dai nostri schermi spuntasse fuori qualche attore davvero capace (qualcuno bravino ovviamente esiste ma la maggior parte sono ingessati in maniera impressionante, o eccedono nei propri atteggiamenti) troverebbe subito la strada di Hollywood.
Quando col denaro pubblico si è creata una "scuola" per la produzione di effetti speciali italiana qualcosa si è anche tirato fuori. Mi viene in mente la produzione spagnola di Donkey Xote con la grafica dell'italiana Lumiq: a parte il modesto successo del film (scarsa distribuzione o era brutto? non so, non l'ho visto) non mi pare che la cosa abbia avuto gran seguito, o che il nostro cinema finalmente cominci a sfoderare buoni effetti speciali ecc... Chissà se i tecnici che hanno imparato qualcosa hanno ancora voglia di lavorare in Italia o se sono all'estero da un pezzo.

Terza... ma con il cinema si finanzia l'espressione della cultura di un paese, o il cinema è un'industria qualsiasi? Se è un'industria qualsiasi, che lo si finanzi solo se c'è modo che presto stia in piedi con le proprie gambe, altrimenti potrebbe andare a finire come con la Fiat, ovvero sostegni statali immensi e di lungo periodo, per poi vedere che l'azienda scappa altrove e insulta il paese che l'ha fatta sopravvivere.
E se invece decidiamo che il cinema ci serve per consentire al paese di farsi sentire, di essere percepito nel discorso culturale mondiale? Io sono per questa seconda ipotesi.
Continuiamo con il paragone con gli Australiani.
Essi sono riusciti a produrre film che hanno guadagnato dei soldi, e anche a parlare al mondo di qualcosa che riguarda la loro storia (esempio: Gli Anni Spezzati), noi no.
Facciamo dei film che uno straniero difficilmente capirebbe come tematiche; e spesso l'uso di modi di fare troppo nostrani o del dialetto è parte irrinunciabile dello stile in cui sono girati. Oppure facciamo film volgari di serie B, e anche questi non so se riusciamo a esportarli (be', in verità spero di no...).
Ma a volte i film finanziati con il denaro pubblico non arrivano nemmeno nei nostri cinema perché non hanno la capacità di attrarre gli spettatori. A questo punto il loro valore diventa quasi impossibile da giudicare: diventa un discorso tra qualche politico che decide come spendere il denaro e tanti artisti che ne vogliono almeno un po'. Il risultato finale è un vivacchiare inutile, sia perché si disperdono le risorse in mille rivoli, sia per le ovvie implicazioni di corruzione, mercato delle vacche ecc... sia perché il risultato che (per me) sarebbe desiderabile, ovvero dire qualcosa di noi al mondo, non può certo essere raggiunto in questa maniera.

Quindi è così immorale o inutile spendere del denaro per finanziare il cinema? No, io credo che in linea di principio non lo sia e non è colpa degli artisti se l'Italia difficilmente potrà recuperare le posizioni che ha avuto in passato. Le circostanze sono diverse, e sfavorevoli. Però non credo che sia di interesse per la collettività produrre spettacoli che non abbiano la possibilità di toccare un pubblico abbastanza ampio. Le elucubrazioni degli intellettuali indecifrabili e i film che non vuol veder nessuno dovrebbero essere finanziati da privati (se ce n'è disposti a farlo) o scomparire. I criteri per sborsare denaro pubblico dovrebbero essere l'argomento almeno in parte attinente al nostro paese e alla sua storia o cultura (in senso lato, non sto parlando di intellettualismi), e la ricerca di un (almeno) decente successo di pubblico. Non penso che bisognerebbe insistere su attori, registi ecc... che non ottengono questi risultati.

Mi viene in mente almeno un film (El Alamein, la Linea del Fuoco di Monteleone) che, aiutato ma non abbastanza dal denaro pubblico, è rimasto pressoché sconosciuto a livello internazionale anche per la disastrosa mancanza di mezzi che è fin troppo evidente nella pellicola, e, immagino, per la debolezza della distribuzione. Idee e artisti ci sono, quello è solo un esempio.
Se si concentrassero i mezzi là dove ne vale la pena, mi sembra che i quattrini disponibili non sarebbero neanche pochissimi. Bene o male si tratta di centinaia di milioni di euro.
Mi sembra evidente, visti i risultati, che non si sa come spenderli.

lunedì 29 novembre 2010

Zombieland

Da un "pilota" per una serie TV che non è decollata è stato tratto un film che, sfruttando il classico filone degli zombie, gira l'horror in chiave comica riuscendo a trasformarsi in una commedia divertente. E anche scema, scema quanto volete, ma di una scemenza comica ricercata con intelligenza, mentre sempre di più sullo schermo (il cinema italiano docet) la risata si cerca di strapparla con la semplice volgarità. Che, beninteso, fa qualche bella comparsa anche qui.

Del regista, Ruben Fleischer, non c'è molto da dire, nel senso che qui ha fatto un discreto lavoro ma non ha alle spalle produzioni particolarmente interessanti.
La voce narrante è di Jesse Eisenberg (che potete vedere anche in The Social Network) nei panni di "Columbus", un ragazzo sociopatico che viveva chiuso nella sua stanza al college giocando a Warcraft col computer, e che grazie alla sua diffidenza e codardia di fondo è riuscito a salvarsi dall'epidemia zombie; il nostro si fa dare un passaggio sul veicolo condotto da "Tallahassee", personaggio fin troppo energico e pronto all'azione (interpretato da Woody Harrelson, che fu protagonista in Natural Born Killers). I due vivranno diverse avventure insieme in cerca dei Twinkie (una schifezza infarcita alla crema di cui Tallahassee va matto), incontrandosi e scontrandosi poi con due furbastre, la dura e astuta "Wichita" (Emma Stone, che ebbe una parte in Suxbad, non proprio un capolavoro di film) e la giovanissima ma implacabile "Little Rock" (Abigail Breslin, che è comparsa in Signs e in un sacco di altri film che... non ho visto). Tutti i personaggi si chiamano per soprannomi.

Nel cast fa la comparsa anche Bill Murray (Ghostbusters) interpretando sé stesso, e rapidamente esce di scena facendo una fine cretina. C'è anche Amber Heard, un'attrice emergente, nel ruolo di "406" (il protagonista la conosce solo per il numero di camera, visto che vivono entrambi nel dormitorio del college). 406 si rifugia nella stanza di Columbus per sfuggire a uno zombie ma... ci sarà un piccolo problema.

I punti forti del film sono (oltre alle scene di macelleria e violenza che ci si può ovviamente aspettare) una comicità spesso macabra (tra cui le regole d'oro per rimanere vivi di Columbus, che appaiono spesso sullo schermo come sovraimpressioni),  un cast ben assortito, il non prendersi sul serio e anzi fare satira sul genere degli "zombie-movie" e, direi, anche gli stessi zombie così come sono raffigurati: non sono quelli imbranati e lenti alla Romero, ma più simili agli "infetti" di 28 Giorni dopo (e in realtà effettivamente sono vittime di una malattia e non morti viventi, anche se non c'è quella gran differenza).
Se non siete tra quelli che evitano per principio questo genere di film, non perdetevi Zombieland.

venerdì 26 novembre 2010

Benvenuta Amazon?

Uno dei blog di Repubblica parla dell'imminente arrivo di Amazon in Italia. Comincia con una frase un po' fuorviante: "Con soli 15 anni di ritardo rispetto agli Stati Uniti avremo anche noi la possibilità di comprare da Amazon." Lo stesso post, e il video sottostante, chiariscono che molti Italiani in verità conoscono già Amazon, e io sono uno di quelli. Staglianò (autore del post) parla poi di una politica dove il cliente ha sempre ragione, di una "religione della customer care," e questo mi preoccupa un poco di più. Non metto in dubbio l'esperienza personale, ma io ho la mia ed è stata molto diversa, e mi ha spinto a smettere di essere un consumatore presso Amazon.co.uk (e di conseguenza anche presso gli altri siti presso cui avevo preso qualcosa, ovvero quello americano e quello francese, perché ho cancellato il mio profilo).

Il problema lo ebbi quando comprai un libro usato (nel "mercatino dell'usato" che funziona tramite Amazon). Questo era il libro, tra parentesi. Mentre controllavo l'esito del mio ordine apparve una comunicazione che lo dava per annullato. Un messaggio nella pagina web, non un messaggio di posta elettronica: circostanza che rese difficile contestare quello che avvenne in seguito.
Acquistai il libro, sempre usato perché fuori commercio, da un secondo venditore e chissà perché la transazione che doveva essere annullata invece passò, e così mi ritrovai con due copie identiche. La circostanza di questi messaggi che talvolta creavano confusione mi fu confermata dalla stessa venditrice (quella il cui ordine sembrava annullato) e io provai a contestare con Amazon, ma la splendida religione della customer care li portò a non volermi dare retta (la sto facendo breve), nemmeno trattandosi di una questione di poche sterline. Notare che avevo comprato libri a pacchi da loro.
Con questo finii per passare ad Abebooks, che tra parentesi non ha aspettato 15 anni per farsi vedere in Italia. E non scordiamoci che esiste anche IBS.

Detto tutto questo, poiché non sono uno che tiene un rancore in eterno, ora che Amazon ha il sito italiano certamente vorrò provarlo, diciamo che sulla "religione della customer care" continuerò ad avere dei ben giustificati dubbi.
Va detto che Amazon ha un vantaggio fondamentale su tutti gli altri siti che vendono in rete dei libri: permette, con un sistema ben rodato e ben partecipato dal pubblico, lo scambio di opinioni e recensioni, in modo che l'acquirente ha elementi per valutare cosa sta comprando. C'è anche altrove (per esempio su IBS) ma non sviluppato allo stesso modo. Amazon permette anche di "dare una sbirciata" al contenuto. Molto meglio comprare su siti che offrono servizi di questo tipo che vagare in libreria guardando le copertine.

Da Amazon comunque mi aspetto un'altra cosa. Poiché (per la scarsa reattività dei concorrenti) sembra almeno al momento aver vinto a mani basse la gara per diffondere il proprio lettore di contenuti digitali (il Kindle), spero veramente che prendano due decisioni fondamentali:
- adottare una politica di prezzi più equa, ovvero spartire veramente con il lettore l'enorme risparmio di cui gli editori (e i distributori online) godono quando non devono distribuire libri di carta e pagare i librai per venderli.
- piantarla con il DRM. Non voglio che un domani spostare i miei libri da uno strumento a un altro diventi un rompicapo insolubile, e non voglio rischiare di non poter leggere libri che ho comprato per qualche problema coi server di autenticazione, con i formati e gli standard tecnologici, e così via. Il software che avevo 10 anni fa non mi interessa più, i floppy disk che avevo 15 anni fa li ho buttati via, per i libri potrebbe essere una cosa diversa.

giovedì 25 novembre 2010

Da parte di uno che ne sa poco o niente

Non ho letto nemmeno uno dei libri della Rowling su Harry Potter. Solo qualche brano qua e là. E non ho seguito tutti i film, non ricordo nemmeno se ne ho visti due o tre (all'inizio della saga). L'aspetto favolistico e il contenuto da fiaba per ragazzi non l'ho affatto disprezzato, Harry Potter era anche divertente (anche se non mi piace l'attore), solo mi sono stancato rapidamente e non ho più avuto desiderio di continuare a vedere i film (né il tempo e la voglia di leggere i libri che pure avrei potuto facilmente ottenere in prestito).
Inizialmente, c'era un elemento non banale nella storia. Harry Potter viveva delle autentiche sofferenze, a parte essere un poveraccio orfano adottato da una famiglia (grottescamente) cattiva e ridotto a vivere in un sottoscala, il che potrebbe essere alla fine una sciocchezza da commedia.

Il suo mondo non era quello edulcorato stile Disney, ma quello della fiaba classica dove c'è molto spazio per la cattiveria. Questo è un aspetto interessante. Le vite dei bambini non sono sempre felici e certe storie sdolcinate non mi sono mai piaciute quando avevo l'età in cui me le rifilavano.

Adesso però, a parte l'indecorosa spremitura commerciale, il doppio finale sta decisamente sbandando in una direzione che, se potrebbe andare anche bene per i ragazzini che sono cresciuti negli anni con questa serie, mi sembra eccessiva per quelli che, magari più piccoli, non avevano seguito la saga fin dall'inizio e vi si avvicinano adesso: e dopo aver visto a tappe forzate i film precedenti, si ritroveranno desiderosi di vedere un film che, per quello che leggo del suo cupo finale, non mi pare molto adatto ai giovanissimi.

Ma forse sto ponendomi un falso problema?

sabato 20 novembre 2010

Codice 46

Un film di fantascienza povero, fatto con mezzi ridotti alll'osso (salvo per le locazioni distanti fra loro in cui è situata l'azione): tutto sommato riesce ad essere abbastanza credibile perché parla di vite quotidiane e non ha nessun bisogno di far vedere allo spettatore una tecnologia strabiliante in azione.
Il film è di qualche anno fa, produzione inglese per la regia di Michael Winterbottom. In Codice 46 quella che viene esplorata è una relazione sentimentale tra William (interpretato da Tim Robbins) che è una specie di ispettore per una società privata, e Maria (Samantha Morton) che lavora in un laboratorio dove si producono certificati assicurativi (chiamati "copertura" o "papello" nella versione italiana del film) che fanno anche da visto e legittimano viaggi e trasferimenti delle persone in un mondo strettamente separato tra chi è "dentro" le aree urbanizzate e chi è condannato a stare all'esterno, escluso dall'economia e dalla società, sotto il sole che è diventato in qualche modo pericoloso (forse è scomparso lo strato di ozono dall'atmosfera?).
Maria produce dei falsi e fa sparire certificati veri per profitto, e in questa attività ha almeno un complice, a quanto si vede nel film. William si sente attratto da lei ed evita di denunciarla (fa finire un altro nei guai al suo posto). Però non può nascondere a dovere questa scelta poco ortodossa che viene smascherata facilmente, e peggiorerà la situazione avendo una relazione con la donna.

Oltre alla separazione delle persone in chi vive "al coperto" e chi è escluso, gli elementi fantascientifici non sono moltissimi ma ci sono. Il Codice 46 del titolo è una legge che proibisce i rapporti tra chi è anche lontanamente imparentato per somiglianza di codice genetico. La relazione tra i due protagonisti rompe questa legge ed è un altro strumento con cui il film mostra una società intrusiva nelle vite delle persone, ma non c'è spiegazione per il motivo che rende così severa l'applicazione del codice. Chi trasgredisce ha la memoria cancellata e non viene incarcerato. Anche il governo (che sembra uno per tutto il mondo e viene chiamato "la Sfinge") non ha molto approfondimento, così come il "virus dell'empatia" che William usa per avere le informazioni facendo parlare le persone anche di argomenti non collegati a ciò che gli interessa.

La gente è un po' di tutte le razze anche se l'azione è in posti ben precisi (Maria lavora a Shangai, William vive a Seattle dove ha moglie e figlio). Il linguaggio usa termini presi a prestito da diverse lingue. Quanto alle scenografie, la regia sfrutta abilmente inquadrature di luoghi esistenti, grattacieli come località esotiche, per creare un aspetto futuristico e strano, e dappertutto ci sono tornelli, posti di blocco con agenti ecc... Le automobili hanno un aspetto assai ordinario e contemporaneo (tranne una specie di Trabant che i protagonisti usano in uno sviluppo della storia) nonostante il mondo di cui si parla non può essere vicinissimo a noi come epoca.


L'effetto che questo film lascia è quello di un mondo malinconico e infelice, di una burocrazia superficialmente corretta, restia a mostrare un volto ferocemente autoritario, ma che in effetti entra di prepotenza anche nella vita privata, oltre a dividere la gente in cittadini e in paria (nel modo in cui William e Maria si muovono si vede però che esiste spazio per saltare le barriere, anche con corruzione e frode). Con il pretesto di una storia d'amore (extraconiugale, per William, ma c'è un elemento in più che non rivelo qui) viene mostrato il volto anonimo di un potere contro cui non sembra possibile fare niente.
A me ricorda molto il triste autunno delle società democratiche di oggi.

venerdì 19 novembre 2010

Piccole soddisfazioni

La rivista Writer's Magazine, dopo la raccolta dei 365 racconti erotici di qualche tempo fa (l'accostamento alla durata dell'anno non è casuale), si ripropone come motore di un secondo esperimento della Delos Books, impostato intorno a un argomento diverso (horror) ma con una struttura simile. Racconti da una pagina (2.000 caratteri) scritti dai collaboratori, dai lettori della rivista, da chi vuole, con una tematica horror a piacere; se non si viene scelti si possono fare altri tentativi. Questo il regolamento per partecipare e i vincoli.
I selezionati avranno ciascuno a disposizione un giorno dell'anno per comparire con il loro racconto.
Sono lieto di dire che il mio è stato selezionato! Qui leggete una anteprima, se vi va.

martedì 16 novembre 2010

Perché non mi piace Matrix

In risposta a gentile sollecitazione, parlo di questo film, a metà tra la fantascienza e il fantastico. Poniamo come presupposto che lo abbiate già visto e cominciamo dalla fine, per togliercela di torno: Matrix in realtà non è solo un film, è una trilogia. I due seguiti (che in effetti sono un film solo, tagliato brutalmente in due per via della lunghezza) portano solo un paio di novità in quella che si afferma principalmente come una storia d'azione basata fin troppo sugli effetti speciali: ovvero l'accentuarsi del lato "mistico," per così dire, del personaggio di Neo, e il rilievo dato a personaggi che sono in effetti Intelligenze Artificiali che si interfacciano nella matrice. La prima cosa non mi ha convinto e mi è parsa ridicola, la seconda invece piacevole, non si vede tantissimo al cinema. Ma persa la sorpresa e la freschezza del primo film, la continuazione e la fine della storia sono stantie, anticlimatiche. I fratelli Wachowski forse avrebbero fatto meglio a evitare un seguito (salvo che per motivi di cassetta, ovviamente).

Matrix ha colpito per la cinematografia, le scene d'azione rallentate, l'originalità di certe scelte stilistiche, e per affidarsi a una premessa (tutta la realtà è una finzione) intrigante e piena di promesse per il prosieguo della storia (promesse a mio parere mantenute in parte). Ci porta un Keanu Reeves in forma, adatto per le parti dove bisogna avere un attore che sappia essere dinamico e radicato nel mondo reale e allo stesso tempo avere un "non so che" di saggio, filosofico o misterioso. Bella anche l'interpretazione di Laurence Fishburne (Morpheus) e brava perfino Carrie Anne-Moss in un ruolo che per definizione non mi piace, quello della action chick di turno, Trinity. Personalmente m'è piaciuto anche Joe Pantoliano nei panni di Cypher, il traditore.

Quello che mi ha dato fastidio è che la pretesa di profondità di questo film, tra discorsi pseudo filosofici e pseudo politici e qualche canzone arrabbiata dei Rage Against the Machine, sia stata presa così spesso sul serio. Qualcuno ha detto che Matrix è il Blade Runner degli anni 90, e la cosa mi fa orrore per la superficialità che certe opinioni rivelano.
Blade Runner è un film con un significato sociale e politico, più di quanto il suo stesso regista si curi di ammettere, ed è un classico che regge il confronto con i film moderni ancora oggi, mentre Matrix (che ha avuto una influenza estetica forte, ma ovviamente queste cose sbiadiscono velocemente al giorno d'oggi) gigioneggia con le apparenze, fa discorsi strampalati, parte da un discorso che si potrebbe supporre politico (una critica dell'alienazione e dei condizionamenti) e sfocia invece nella baggianata pseudoreligiosa, con un protagonista che diventa una sorta di incrocio tra Superman e Gesù Cristo (parole di chi ne è l'artefice, non mie).
E' un trionfo dell'effetto speciale e dell'apparire, è il classico prodotto dei nostri tempi dove grattando il marchio scintillante vedi che sotto non c'è un gran che.

Una cosa che mi fece rabbrividire quando vidi Matrix al cinema: il racconto semi-mitico della lotta fra uomini e macchine, quando gli uomini oscurarono il cielo per togliere l'energia solare che serviva alle macchine, e in risposta le macchine ridussero in schiavitù gli uomini usandoli come fonte di energia. E con questo Morpheus mostra un pila, facendo capire che un corpo umano vivo sarebbe una fonte di energia bioelettrica appetibile per le macchine. Ora, qualora il film fosse un capolavoro (e non lo è), sarebbe comunque gravemente minato alla radice visto che l'ambientazione si basa su una stupidaggine di questo tipo. Se gli umani anche da vinti hanno dato tali problemi a doverli mantenere in una realtà virtuale fatta apposta per loro, l'unica decisione ragionevole per le macchine sarebbe stata di eliminarli, una volta che li hanno avuti in pugno, per ricorrere a una fonte di calore ed energia meno difficile da gestire. Non che manchino i possibili esempi: mucche, pecore, cavalli... Se la contro-obiezione fosse che gli animali non si possono usare perché sono scomparsi (in effetti non se ne vede un gran che, nel devastato mondo reale), allora ancor più assurdo appare il finale della trilogia dove gli umani verranno liberati: senza bestiame come potranno nutrirsi? Dovrebbero continuare a mangiarsi la schifezza riciclata che veniva loro fatta assorbire nei bozzoli in cui erano prigionieri? Senza contare che, se Neo era già al limite dell'età in cui un uomo può esser staccato dalla matrice, allora questa liberazione dell'umanità al termine della trilogia sembra porre altri problemi insolubili.

Insomma, premesse contaminate di assurdità, pesanti (anche se non siamo al livello del remake di Ultimatum alla Terra di cui ho parlato quest'estate...), ma ancor più fastidiose perché nessuno sembra farci caso. Aggiungiamoci pure il fatto che l'ultima città sotto controllo degli umani, Zion, esiste come posto mitico di cui nulla viene spiegato: nei seguiti di Matrix la vedremo, a dir la verità, ma restano dei dubbi su come possa sussistere questa specie di ultimo bunker. Di cosa si nutrono i suoi abitanti? Da dove trae le risorse?

Detto tutto questo, Matrix sarebbe un film leggero ma anche piacevole qua e là, se non si prendesse così sul serio. E se non fosse stato preso così sul serio da qualcuno. Un fumettone gonfiato fino a essere analizzato dal punto di vista filosofico e religioso (c'è anche una setta nata da questo film, se diamo fede alla wikipedia).
Ma considerando che stavano per dare la parte di Neo a Nicolas Cage (che l'onnipotente ci protegga), poteva andare ancora peggio, direi.

sabato 13 novembre 2010

Off Topic: un film da non vedere

Aspetto (e probabilmente non vedrò mai) un film bello, forte, epico, senza frottole patriottiche ma senza dover necessariamente buttare tutto in vacca, sul risorgimento italiano.
Del film che esce in questi giorni, Noi Credevamo di Martone (mattone di circa tre ore) si può vedere una anteprima sul Corriere online: mi ha fatto cascare le braccia nel giro di una manciata di secondi. Classico film italiano che non può essere esportato oltre Lugano, dove in nome del realismo o di discorsi interni di noialtri si fanno le soltie scelte assassine, come recitare in dialetto (in certi momenti avrei avuto bisogno dei sottotitoli) o lanciare riferimenti alla politica di oggi. Quanto alla scelta coraggiosa, quella di raccontare il risorgimento "non come ce lo hanno fatto studiare a scuola," ma con tutta la schifezza e la cattiveria, è da vent'anni che vediamo solo spalare letame sul risorgimento. Che brillantezza intellettuale, che grande novità.
Mettiamoci una pietra sopra. Ma se per sbaglio qualcuno lo va a vedere, mi faccia sapere cosa ne pensa, per favore.

giovedì 11 novembre 2010

Brevissimo omaggio a Dino De Laurentiis

Veramente non ci avevo mai riflettuto, ma questo mostro sacro del cinema, che ci ha lasciati a 91 anni, è stato un campione del cinema fantastico (tra le altre cose, ovviamente).
Oltre ad aver dato vita a Conan, è anche il produttore di Dune e, meno importanti per me ma sempre noti agli amanti del fantastico, Flash Gordon e L'Armata delle Tenebre. Mettiamoci pure Barbarella, il remake di King Kong e Diabolik. Ma ce ne sono molti altri, parlando solo di quelli attinenti al fantastico, senza contare che questo produttore ha al suo attivo alcuni dei capolavori del cinema sia italiano che internazionale.
Se ne è andato un gigante, un protagonista di quell'epoca in cui l'Italia, senza neanche saperlo, ebbe una grandezza come non rivedremo mai più.

E-book: siamo già al colore?

Aspettavo con ansia gli speciali schermi (con tecnologia simile agli LCD ma molto meno assetati di energia) della PixelQi: pare che li vedremo sul prossimo Kindle, ragione già buona per raffreddare i miei entusiasmi (non amo Amazon, non amo i DRM).
Ma poi arriva questo, uno schermo E-Ink a colori grazie al perfezionamento degli attuali schermi non retroilluminati.
Quindi siamo già arrivati all'ebook a colori. Sarà poi vero?

mercoledì 10 novembre 2010

Il Labirinto del Fauno

Un film spagnolo, e un fantasy che non è un fantasy, a quanto pare. Guillermo del Toro ha detto più volte di non essere molto entusiasta riguardo al genere. Esplicitamente: dichiarazioni come "non mi piacciono gli omini coi piedi pelosi e i draghi..." (strano, per uno che avrebbe dovuto dirigere Lo Hobbit).
Tuttavia in questo film il regista ha fatto ricorso al mondo delle favole per spiegare il percorso di ribellione di una ragazzina, e il risultato è un mondo fantastico che, sebbene sia evidente che esiste solo nella mente della giovanissima Ofelia (Ivana Baquero), riesce a sorprendere, impaurire e accattivare al tempo stesso.

Il Labirinto del Fauno (traduzione semplice e ineccepibile una volta tanto, ma in inglese è diventato il Labirinto di Pan) si svolge nella Spagna del 1944 governata da Franco, nel periodo in cui la guerriglia manteneva ancora un piede in qualche zona rurale e veniva soffocata poco a poco dalla milizia nazionalista. Se vogliamo aprire una brevissima nota storica: Franco emerse come capo in un gruppo di leader militari che nel 1936 si ribellarono a un governo democratico portandosi dietro la massa dell'esercito regolare; dopo un periodo di incertezza prese decisamente il sopravvento e nel 1939 soffocò il governo repubblicano. La Spagna tornò alla democrazia solo dopo la morte di Franco.

Questo è il vero tema di cui vuole parlarci il regista. La storia si svolge attorno a un piccolo avamposto tenuto dalla milizia franchista, un manipolo relativamente modesto ma comandato da un uomo crudele e dalla volontà di ferro: il capitano Vidal (Sergi Lopez). E' un cattivo da favola, rigido e odioso come più non si potrebbe; però come personaggio, visto il contesto, non è irrealistico.
I suoi avversari sono i guerriglieri, che vengono dipinti come i buoni della storia.
Questa è ovviamente una visione politica del regista. Se volete prendere due piccioni con una fava, acquistando Omaggio alla Catalogna di George Orwell combinerete un'ottima lettura con una visione un po' più sobria su come andassero le cose nella fazione repubblicana.

Attorno alla lotta fra Vidal e i guerriglieri vi sono diversi personaggi: Carmen, moglie di Vidal e madre di Ofelia, incinta, malata e stanca. Si capisce subito che Vidal tollera la poco disciplinata Ofelia, che non è figlia sua, solo perché Carmen sta per dargli un erede (che egli vuole maschio); anche nei confronti dei notabili della zona, che ovviamente rispettano Vidal, Carmen e Ofelia sono mostrate in difficoltà e in inferiorità. Mercedes, la domestica, è sorella di uno dei guerriglieri, e li aiuta come può. Anche il Dottor Ferreiro collabora segretamente con i ribelli, prestando loro le cure mediche.

In questo ambiente terribile Ofelia, una bambina che si trova ad affrontare un universo di odio, fantastica sull'incontro con un Satiro che le parla un mondo incantato, di cui lei è la principessa e in cui potrebbe ritornare. Le prove che Ofelia deve superare sono impressionanti come le creature che incontra: queste sono state create con grande perizia, facendo risaltare tutto l'orrido e lo spaventoso che ci può essere nell'universo della fiaba (l'Uomo Pallido decisamente è il mio preferito). Lo stesso Satiro è una figura tutt'altro che compassionevole e a suo modo sinistra. A parte i riferimenti mitologici e i richiami alle figure della tradizione pagana (Pan, il mondo sotterraneo degli dèi inferi, ecc...) il tema portante è l'anima ribelle di Ofelia che crea la propria realtà alternativa a un mondo insopportabile, e alla decisione, che sviluppa in questa realtà, di disobbedire sia a Vidal, sia a sua madre che la voleva acquiescente di fronte a un mondo dove la realtà è crudele ed è inutile illudersi con le favole.

Il film non è facilmente interpretabile con una banale categoria, comunque. E non ha il semplice e lineare lieto fine che ci si potrebbe aspettare da una storia del genere. (Attenzione, saltate al paragrafo successivo se non volete leggere particolari della trama). Ofelia non è premiata per il coraggio di continuare le sue prove, il Satiro non è un personaggio benevolo, il successo arriverà solo in un'illusione mentre la ragazza è in agonia, e sebbene i ribelli colgono la vittoria su Vidal, lo spettatore sa (se conosce un po' la storia, beninteso) che sono condannati ad essere sconfitti.

Punti forti di questo film sono le grandi interpretazioni degli attori (soprattutto la Baquero, ma non solo) e l'ottima resa del mondo fantastico, ottenuta con un budget non astronomico. Storia e finale lasciano dei dubbi e sono aperti all'interpretazione, e non è detto che sia una cattiva cosa. Soprattutto, nella crudezza della storia che narra, anche se c'è una ragazzina come protagonista è un fantasy decisamente adulto (se lo vogliamo vedere come fantasy, sperando... di non offendere il regista). Di questi tempi non è qualità da poco.

domenica 7 novembre 2010

La triste fine di Alatriste?

Ok, non ha molto a che vedere con il fantastico perché si tratta di un personaggio inserito in romanzi storici. Io non ne ho letto nemmeno uno, diciamo la verità, però ho visto il film, e nonostante ci siano delle pecche di regia molto evidenti, con il tentativo di seguire troppe vicende comprimendole in una maniera da risultare comprensibili solo a chi conosce i libri, Alatriste è nella mia short list dei film migliori. E dei libri che devo decidermi a leggere.

Non posso che essere sorpreso, negativamente, alla notizia che Pérez-Reverte lancia un nuovo personaggio, una eroina dal nome di Lolita, in una nuova storia (o una nuova saga?) ambientata antorno ai primi dell'ottocento. Spero bene che non avremo il solito personaggio di plastica, la solita donna finta trapiantata dalle pagine delle riviste tipo Cosmopolitan in un'epoca non sua. Con quel nome poi...
L'autore dichiara sul Corriere che non sarà un'eroina femminista perché sarebbe assurdo per i tempi (meno male...) ma una donna istruita e che ha viaggiato, come ce n'erano nell'epoca che prende in considerazione. Quindi le intenzioni non sarebbero malvagie. Vedremo il risultato...

lunedì 1 novembre 2010

Ad Astra

Il mio semi-omonimo Bruno Faidutti è un mostro sacro dei giochi da tavolo. Vive in Francia (mi chiedo se sarà davvero francese al 100%, visto il cognome che porta) e ha pubblicato parecchi successi ludici.
Questo Ad Astra (progettato assieme a Serge Laget) potrebbe essere uno dei migliori. Si tratta di un gioco che come ambientazione ha la conquista dello spazio, con un sistema di scarsa interazione tra i giocatori (in realtà interagiscono eccome, ma in maniera piuttosto raffinata, quindi non avremo guerra in questo gioco).

Il gioco è molto semplice: si parte da un sistema madre con un pianeta e un'astronave a testa. Il pianeta produce una delle risosrse che formano uno dei componenti fondamentali del gioco: si tratta di energia, acqua, cibo e tre diversi minerali. Con questi si fa tutto: si muovono le astronavi e si costruiscono tutte le strutture contemplate dal gioco (le astronavi stesse più colonie, fabbriche e terraformatori); inoltre le risorse possono essere commerciate. Le astronavi esplorano lo spazio permettendo di sfruttare le risorse dei vari pianeti e di iniziarne la colonizzazione. Esistono anche mondi già abitati dagli alieni: risorse non ne danno, ma permettono al giocatore di pescare una carta da un mazzo particolare: carta che attribuisce un potere speciale.

Questo meccanismo in effetti semplice viene complicato dalla maniera in cui si compone il turno di gioco: ovvero con delle carte che tutti i giocatori hanno e che dispongono su un tracciato dove verranno pescate seguendo un certo ordine: le carte indicano delle fasi valide per tutti i giocatori. Le fasi determinano tutte le attività: permettono il movimento, ma solo verso certi tipi di sistemi stellari. Consentono di raggranellare punti vittoria, ma solo per certi obiettivi raggiunti e non per altri. Permettono di raccogliere le risorse ma in un'alternativa fra due tipi: ne va scelto uno solo.
Insomma, ogni giocatore cerca di introdurre nel turno le attività che fanno più comodo a lui e meno agli altri, e nello sviluppare la propria strategia dovrà scegliere quando "andare a rimorchio" di scelte che altri hanno fatto (in modo che le carte di quel giocatore forniranno possibilità anche a lui, visto che sta facendo qualche cosa di simile) e quando cercare di sviluppare un tipo di attività o di struttura che gli altri (almeno per il momento) non hanno.

Questo gioco come tanti "eurogames" simili ha il classico tracciato dei punti di vittoria. Il sistema con cui si ottengono i punti, come ho accennato sopra, è abbastanza insolito. Nelle carte di "scoring" (di punteggio) c'è da scegliere cosa premiare, e bisogna usare tutte le proprie carte di scoring prima di rigiocare la stessa carta per una seconda volta.
Quindi si rischia spesso e volentieri di far riscuotere punteggio ai nostri opponenti: queste carte bisogna giocarle con molta strategia.

Come avrete compreso dalla mia scarna descrizione, Ad Astra impone di ponderare bene le proprie scelte perché esse aprono delle possibilità non solo a noi ma anche ai nostri competitori. Esiste qualche fattore che dà troppo peso alla fortuna (certe carte che si pescano esplorando i mondi alieni) ma fin da subito viene offerta ai giocatori la possibilità di eliminarle.
Tutto sommato un gioco molto elegante, facile da imparare e complesso da giocare, abbastanza rapido nell'esecuzione, avvincente e impegnativo. Nonostante la relativa semplicità non lo consiglierei a dei bambini piccoli.
Ad Astra ha vinto un premio a Lucca Games (non l'edizione che si chiude adesso, ma quella dell'anno scorso ovvero il 2009) ed è tradotto in italiano dalla Nexus.

lunedì 25 ottobre 2010

Conan il Barbaro


Non sono uno che si sbilancia con le classifiche e se mi si domanda, ad esempio, qual è il libro fantasy che mi è piaciuto di più, tenderò certamente ad elencarne un certo numero mettendoli più o meno allo stesso livello. Per quanto riguarda il cinema, invece, mi permetto di dare un parere deciso per quanto sempre personalissimo. C'è un film fantasy che a mio parere rimane ancora ineguagliato e può tranquillamente mantenersi sul gradino più alto del podio, anche se prodotto in un'epoca in cui gli effetti speciali erano ridotti all'osso. Parlo di Conan il Barbaro, del lontano 1982. La produzione di De Laurentiis ebbe il coraggio di creare qualcosa di decisamente insolito, mettendo insieme un grande regista (John Milius, proprio quello che ci vuole per una storia di questo genere) che scrisse anche la sceneggiatura, collaborando con il non ancora celebre Oliver Stone, mezzi adeguati per quello che si poteva fare all'epoca, e attori per lo più non (ancora) famosi né eccezionali come doti recitative, ma che si dimostrarono adeguati per i loro ruoli. Da notare che si investì anche su una colonna sonora d'eccezione, creata da un'orchestra, laddove si sarebbe potuto riciclare qualche brano di musica medievale e di musica classica spendendo poco o niente.

Il film non è fedelissimo ai racconti su Conan scritti da Robert Howard, e forse nemmeno allo spirito del personaggio, sotto certi aspetti: sposa un'estetica alla Frank Frazetta con una storia aspra, dura ed essenziale. E' un film che unisce la sword and sorcery alla storia epica: parte dalla distruzione del villaggio di Conan bambino ad opera degli uomini di Thulsa Doom, stregone e avventuriero che cerca il segreto dei produttori dell'acciaio, segue la crescita di Conan giovane schiavo e gladiatore in un mondo di pura lotta per la sopravvivenza, e quando il nostro eroe si guadagna la libertà arriva la lotta per vendicarsi di Thulsa Doom, lotta in cui Conan perderà la donna che ama (Valeria, interpretata da Sandahl Bergman) ma arriverà finalmente a farsi giustizia.

Conan il Barbaro basa parte del suo richiamo sul contrasto fra la forza vitale della barbarie e la corruzione decadente della civiltà, incarnata nelle città in cui Conan vive i suoi vizi e trova i templi dei suoi nemici, e soprattutto impersonata dal sofisticato Thulsa Doom, che comanda un culto di adepti fanatici pur mantenendo il proprio compassato cinismo. Per contrasto Conan sa a malapena che il suo è Crom, il dio delle montagne, che non ascolta le invocazioni. Il discorso con l'amico Subotai, fedele di un dio del cielo che sostiene essere "più importante" del dio di Conan perché il cielo sta sopra le montagne, è tutta la teologia di cui Conan è capace: l'unica volta in cui chiederà a Crom di aiutarlo (non in nome della giustizia ma in nome del coraggio), lo manderà contemporaneamente a quel paese. Conan si batte per sopravvivere sempre e comunque, quando è schiavo e gira la ruota di una macina, quando deve battersi alla morte per il divertimento altrui, quando è crocifisso senza speranze ma trova la forza di difendersi dagli avvoltoi con i denti, senza altro scopo che morire una mezz'ora dopo (ma ovviamente viene salvato). La sua è una vitalità ostinata spinta dalla voglia di farcela ad ogni costo ed estranea a qualsiasi morale, così come totalmente immorale è la ricerca del potere da parte di Thulsa Doom.

Il risultato è un fantasy forse unico, lontanissimo da certe melensaggini dei giorni nostri, essenziale, duro e violento, pensato assolutamente per un pubblico adulto, anche se in seguito le scene di nudo sono state almeno parzialmente censurate. Già il successivo Conan il Distruttore non era più così, nel tentativo di raggiungere un pubblico più vasto.
Una storia come quella di Conan il Barbaro non ha bisogno di grandi istrioni, se non forse il corrotto e decadente Thulsa Doom, interpretato perfettamente da James Earl Jones (voce di Darth Vader in Guerre Stellari). Sandahl Bergman, Gerry Lopez (l'arciere Subotai) e Arnold Schwarzenegger hanno fornito interpretazioni semplici e a volte non molto espressive, ma adatte a un'ambientazione dove la violenza è la norma. Certe scene parlano da sole e non hanno bisogno di grandi attori, come il lento defluire dei fedeli che gettano le torce nell'acqua e se ne vanno alla morte di Thulsa Doom, o lo sterminio del villaggio di Conan, o le orge guidate dalla follia religiosa nei templi del culto del serpente.

Pertanto non mi interessano molto le critiche di chi dice che mancano le grandi interpretazioni in questo film: gli attori, compreso il palestrato e (nonostante il successo) molto deriso Schwarzenegger, vanno benissimo per quello che devono fare. Una tematica più delicata può essere quella dell'ideologia di forza e violenza che predomina (non per niente è un film di John Milius): ma è un film fantasy e nel contesto le cose vanno benissimo così. In questa ideologia truculenta il film si prende terribilmente sul serio senza alcuna autoironia, è vero, ma anche questa critica secondo me non è molto efficace perché Conan il Barbaro non mi pare che arrivi ad essere "involontariamente comico" nelle sue esagerazioni, per quanto le espressioni di Schwarzenegger spesso vadano troppo sopra le righe. Forse questo difetto appare con il seguito, che comunque è un film decisamente mediocre.

Alcuni effetti speciali scabrosamente brutti se rivisti ai giorni nostri: gli spiriti che cercano di portarsi via Conan (nel rituale magico in cui Valeria si vota alla morte pur di salvarlo), qualche masso e colonne di polistirolo che cadono nelle scene di distruzione, qualche effetto da film "peplum", come la lotta di Conan con il serpente di plastica che è evidentemente un pupazzone inanimato. Certo, sono passati tanti anni, oggi certe cose le vorremmo vedere fatte meglio.
Ma Conan resta il primo dei film fantasy.

Per una recensione di Conan molto migliore della mia, seguite questo link.

mercoledì 20 ottobre 2010

Il Risveglio dei Draghi

Un libro della Editrice Nord che ho recensito per Fantasy Magazine, è il secondo di una trilogia ma, a parte qualche accenno qua e là a fatti evidentemente raccontati in precedenza, si può tranquillamente leggere perché la storia è una ripetizione della classica storia fantasy (spoiler): il male si risveglia da un lungo sonno, tesse la sua tela di intrighi, cerca terribili alleati per poter portare avanti la sua malvagia opera di distruzione, ma i buoni reagiscono: ci sono alcuni predestinati che si sottoporranno a una prova, faranno ai cattivi un mazzo così, e comincerà una nuova era.

Insomma se siete appassionati di fantasy con qualche anno di militanza alle spalle Il Risveglio dei Draghi sarà come se lo aveste letto cento volte. Detto ciò, se una storia non dà niente di nuovo sul fronte di che cosa dice, forse si può rivalere su come lo dice: il libro è scritto bene, qua e là simpatico, tra i protagonisti una dragonessa (che in effetti è una ragazza che può trasformarsi in drago) simpatica e lontana dalla prevedibile Mary Sue che ti rifilano quasi sempre le scrittrici, e qualche altro personaggio divertente. Non manca un tocco di lieve ironia da parte dell'autrice in molte scene, ci sono draghi di ogni razza e colore dappertutto, e una bella ambientazione con la sua complessa cosmogonia di divinità buone e cattive.

Beninteso io non sono per questo tipo di fantasy (e non è comunque fantasy per adulti), ma la storiella è simpatica e scorrevole e vi potrebbe andar bene per un paio di giorni di relax, tipo sotto l'ombrellone (anche se non è proprio la stagione...). L'autrice è una scrittrice e giornalista austriaca (Julia Conrad, ma è uno pseudonimo) che ha già al suo attivo altri libri per bambini e ragazzi.

venerdì 15 ottobre 2010

L'Isola del Paradiso

Questo fumetto italiano l'ho scelto per l'aspetto accattivante del disegno e del colore, anche se non manca una qualche ingenuità e certe eccessive semplicità del dettaglio (secondo i miei gusti). M'è piaciuto anche per l'ambientazione, tra mari tropicali e isole lussureggianti. L'autore della sceneggiatura è Piero Fissore da un testo di Eugenio Corti (scrittore di area cattolica e veterano dell'ultima guerra), le matite sono di Elena Pianta e i colori di Pamela Brughera.
Il fumetto, intitolato L'Isola del Paradiso, narra le vicende degli ammutinati del Bounty e ne fa una parabola morale sui limiti dell'essere umano. Non ci sono toni da predica, per fortuna, ma una tragica successione di fatti: sospetti, lotte fratricide e odi proprio tra quegli uomini che, dopo essersi ribellati a un comandante crudele, avevano trovato rifugio in un paradiso terrestre dove sarebbe stato possibile coltivare fratellanza e libertà.

Infatti, mentre una parte degli ammutinati venne scoperta dagli Inglesi a Tahiti e arrestata (di essi alcuni si salvarono, altri morirono per varie cause, un paio vennero impiccati) un gruppo più piccolo si rifugiò nell'isola di Pitcairn, disabitata e quasi sconosciuta, proprio per scomparire dall'orizzonte di sua Maestà britannica. Questi ammutinati non vennero scoperti per moltissimo tempo. Essi erano accompagnati da un certo numero di Tahitiani, uomini e donne, e proprio i problemi di convivenza fecero cominciare il disastro in quello che doveva essere un paradiso di libertà.
Dopo una serie di vicende che potrete leggere in questo fumetto, ben pochi erano rimasti in vita in questa Isola del Paradiso.

lunedì 11 ottobre 2010

Al Libraccio

Sempre in pena per la quantità di libri che rischia di seppellirmi, sono andato al Libraccio per vedere di venderne qualcuno. Il Libraccio, per chi non lo sapesse, è una meritoria catena che vende sia il nuovo che l'usato, ed è certamente di grande aiuto quando si ha a a che fare con i testi scolastici; la presenza fisica delle librerie è però limitata al centro-nord.

Con mia somma delusione, i fumetti (in libri cartonati) non gli interessavano e mi hanno detto di tornare a proporli semmai a fine mese. I libri in inglese nemmeno presi in considerazione (fantasy italiano idem, libri di storia idem). Hanno preso (su oltre una dozzina) solo tre testi di largo interesse: Graceling, Solomon Kane, Il Dardo e la Rosa. Il tutto per la grassa cifra di sei euro.

A parte la cifra modestissima, problema che m'importa relativamente, la soglia d'interesse assai bassa esclude questo sistema come rimedio definitivo per rimediare all'invasione di carta stampata di casa mia. Del resto, avendo tenuto "bottega" su ebay e venduti un centinaio di libri, posso assicurarvi che anche quello è un canale da disperati. Compilare le offerte, pagare una commissione a prescindere dalle vendite, rischiare che il libro si perda per strada e quindi di bisticciare con il cliente... ragazzi, che noia. Senza contare che, se vendi, paghi una seconda commissione, se c'è il pagamento Paypal adesso praticamente obbligatorio ne paghi una terza (sempre allo stesso soggetto perché Paypal ed ebay hanno lo stesso padrone) e poi per la posta devi caricare ulteriori spese, tutto uno stillicidio, magari per vendere sette o otto euro di libro, talvolta molto meno. Adesso c'è un sistema di annunci gratuiti (puoi inserire un annuncio senza pagare) ma non funziona molto meglio.

Perciò sono sempre alla ricerca di un sistema per liberarmi di una parte dei miei libri, senza buttarli nel raccoglitore della carta da riciclare.

sabato 9 ottobre 2010

L'Insaziabile

Mi sono imbattuto in questo film per caso, la prima volta. Ero in vacanza, in una camera d'albergo, stanchissimo dopo aver camminato molto: non riuscivo a capire la trama perché mio malgrado mi addormentavo di continuo, ma nel dormiveglia seguivo questo susseguirsi di squartamenti, dialoghi surreali, personaggi allucinanti, il tutto in uno scenario piuttosto strano (un fortino in mezzo a boschi e montagne innevate, un'ambientazione nel west americano) e con un sottofondo musicale eccezionale, per lo meno in alcuni momenti.

Il film in questione è L'Insaziabile (Ravenous in inglese) diretto oltre dieci anni fa dalla regista inglese Antonia Bird, con Guy Pearce nel ruolo del Capitano Boyd, ufficiale tutt'altro che eroico. Robert Carlyle (Trainspotting) è il Colonnello Ives, un misterioso personaggio che sarà il suo antagonista.

Boyd all'inizio del film viene decorato per uno scatto di eroismo, grazie al quale ha catturato i comandanti di un reparto nemico durante uno scontro tra soldati di Stati Uniti e Messico. I suoi superiori però sanno che Boyd si è trovato in posizione favorevole per compiere il suo exploit perché poco prima, paralizzato dal terrore, si era nascosto tra i morti mentre i suoi uomini venivano massacrati. Sapendolo un codardo il suo superiore non lo vuole tra i piedi e lo assegna a Fort Spencer, un avamposto dimenticato nella Sierra Nevada, a cavallo delle piste percorse dai coloni che si recano in California.

Il fortino (che in effetti è stato costruito sul set in Slovacchia) è abitato da un piccolo drappello di personaggi buffi e sregolati: un ubriacone, un fanatico religioso, un anziano comandante stanco e disilluso, un cuoco che si droga con tutto quello che trova adatto allo scopo, due indiani fratello e sorella, e un soldato vigoroso ed esageratamente aggressivo (interpretato da Neal McDonough) che comunque è forse il più normale del gruppo, e che si diverte a stuzzicare il codardo Boyd.

In questo strano ambiente capita un estraneo che dice di essere sfuggito in cerca di aiuto da una carovana bloccata fra le montagne, i componenti del gruppo ora in balia della fame e di un turpe personaggio che li ha convinti a darsi al cannibalismo per sopravvivere. Qui il film fa riferimento a un fatto vero, con elementi tratti da un secondo evento (link in inglese) non contemporaneo all'epoca del film, in cui una carovana avendo preso una pista sfavorevole rimase isolata nel mezzo del rigido inverno condannando i viaggiatori alla fame, al cannibalismo e in buona parte alla morte.

Il comandante della modestissima guarnigione si mette alla testa di un drappello di soccorso e nell'occasione George, lo scout indiano, comincia a parlare della leggenda del Wendigo, uno spirito malvagio che può impossessarsi di chi si nutre di carne umana, donandogli la possibilità di appropriarsi della forza e dello spirito di chi è stato mangiato, di guarire da ogni malattia e ferita, ma condannandolo ad avere una fame di carne umana implacabile, che dovrà essere sempre soddisfatta. Il comandante chiede a George se il suo popolo pratica ancora il cannibalismo e lo scout risponde in maniera ambigua dicendo che del resto i bianchi "mangiano il corpo di Cristo tutte le domeniche".
E nel viaggio per soccorrere la carovana bloccata fra i monti innevati, lo straniero che ora guida il gruppo di soccorso comincia a dare segni di squilibrio.

Qui mi fermo con la trama. L'Insaziabile a mio parere è un ottimo film horror con una valida regia, un'atmosfera ben realizzata fra aspettativa e tensione, una potente forza evocativa che moltiplica l'effetto delle scene di violenza e di sangue. Mi è molto piaciuta l'ambientazione insolita, l'alternarsi tra drammaticità e humour nero, la trama difficilmente prevedibile. Non è un trattato di filosofia ma pone ovviamente delle domande sulla cattiveria quotidiana di tutti noi, sul male che facciamo agli altri per tirare avanti.
Ottimi gli attori.

A parte i suoi estimatori che lo reputano un capolavoro (e quasi quasi mi accodo, nonostante qualche difetto qua e là) non ha avuto successo né di critica né di pubblico, perciò per i più resterà un film semisconosciuto. Da parte mia devo ammettere che molte scene dove si caratterizzavano i personaggi, si dava un maggior senso alla storia e si svolgevano dei dialoghi interessanti sono finite negli extra del DVD, fra le scene tagliate (e niente traduzione in italiano, perciò ho dovuto cercare di capire come potevo). La seconda parte del film privilegia il sangue in maniera forse eccessiva, tuttavia consiglio di dare un'occhiata a questo piccolo capolavoro dell'orrore, a mio parere troppo sottovalutato.

venerdì 8 ottobre 2010

In arrivo Let Me In ?

Non ho trovato notizie precise, ma il remake di Lasciami Entrare dovrebbe arrivare anche da noi (titolo in inglese: Let Me In e non penso che verrà cambiato in Italia); comunque non so quando.
Dalle recensioni sembra che la versione USA non sia poi malaccio, ma contrariamente a quello che era stato dichiarato non si distacca particolarmente dal film che abbiamo già visto. Ambiguità sessuali rimosse, comunque. E il tutore della misteriosa ragazzina, un personaggio a quanto ne so turpissimo nel libro (che non ho ancora letto), e discretamente turpe e in odor di pedofilia nel film svedese, diventa una specie di figura paterna. Penso che per cercare di vendere il film negli USA queste fossero le concessioni minime da fare.
Sembrerebbe che Chloe Moretz, la giovanissima protagonista, abbia donato un'interpretazione di prima classe superando la svedese Lina Leandersson dell'originale. Sono curioso, perché la Leandersson mi era parsa molto convincente, questa la voglio proprio vedere per crederci.

giovedì 7 ottobre 2010

Paganesimo

Ho letto che in Gran Bretagna la religione dei Druidi è stata riconosciuta come un culto a tutti gli effetti. Il fatto in sé lo trovo poco significativo da un punto di vista teologico: perché se un essere supremo davvero esiste (o se ne esistono diversi), di azzeccare la religione "vera" i neo-pagani hanno le stesse possibilità rispetto ai dottori della Chiesa o rispetto al sottoscritto, se si mettesse a inventarsi i dettami di una religione in un'ora di tempo libero (queste cose le ho fatte, ma per inventare ambientazioni di giochi di ruolo).

Trovo molto triste che il paganesimo sia scomparso lasciando pochissime tracce della sua spiritualità e dei suoi riti al di là di un certo numero di credenze e abitudini folcloristiche che conosciamo un po' tutti, dall'albero di Natale in poi. I primi colpevoli in certi casi furono gli antichi romani, visto che stiamo parlando di Druidi: erano una voce della "resistenza" celtica, le legioni si sono prese l'incarico di eliminarli. Poi ovviamente è passato il rullo compressore del Cristianesimo e le religioni pagane classiche hanno fatto la stessa fine dei druidi, assieme ai culti professati dai barbari e da parecchi popoli del medio oriente. Se proprio non fosse bastato, alla fine è arrivato pure l'Islam, anche se con uno stile differente da quello cristiano: più un soffocare lentamente le altre religioni con la sottomissione, che non distruggerle rapidamente con le persecuzioni.

Come dicevo, è triste che il paganesimo sia scomparso, ma è scomparso. Il riconoscimento di questi giorni servirà ai "druidi" ad avere alcuni benefici fiscali ma non li renderà veri.
Se oggi i pagani potessero prendersi la rivincita sarei anche contento con loro, ma questi revival di religioni di cui non è rimasto nella memoria che qualche elemento sparpagliato sono solo malinconia. Gli dei vivono nello spirito dei popoli, e quando quel filo è spezzato, anche le divinità sono morte per sempre. Per questo ai "neo pagani" non riuscirò mai a dare più considerazione che ai movimenti New Age e altre manifestazioni semiserie della spiritualità da supermercato del giorno d'oggi.
Senza offesa, beninteso, per chi è convinto di crederci veramente.

venerdì 1 ottobre 2010

Il Sentiero di Legno e Sangue

Il sottoscritto, amante delle ambientazioni elaborate e ben pensate, non è ammiratore del new weird visto come spregiudicata ricerca dell'eccesso e dello stupore ad ogni costo (è una moda di cui magari era meglio fare a meno). Tuttavia devo ammettere che le mie esperienze con il genere sono state interessanti (Vedasi Perdido Street Station di Miéville e The Alchemy of Stone di Ekaterina Sedia, menzionata anche dall'autore del libro che andiamo a vedere adesso). Comunque, forse perché ero prevenuto in partenza o forse perché proprio c'era qualcosa di confusionario, ho faticato tremendamente con Il Sentiero di Legno e Sangue per una cinquantina di pagine, che in un libro che ne conta 146 non son poche.
Semplicemente, mi pareva che Luca Tarenzi non me la contasse giusta. Troppa confusione, paesaggi pazzeschi, un caleidoscopio di stranezze che sembravano buttate in faccia tanto per fare. L'idea di partenza non era male: recuperare Pinocchio, personaggio misconosciuto e rifiutato che in verità se ci pensiamo un attimo è forse l'unica icona fantasy (o fantastica) di notorietà mondiale prodotta dall'Italia moderna. Inizialmente però la maniera in cui Pinocchio era stato stravolto l'aveva reso talmente irriconoscibile da farmi venire i nervi.

La storia comincia con la morte del creatore del burattino di legno, e con il tentativo da parte di due creature mostruose (la Maschera e la Bestia, in cui si riconoscono facilmente il Gatto e la Volpe) di ritirarlo immediatamente dalla circolazione. C'è anche il grillo parlante, che in realtà qui diventa un tarlo, e all'inizio mi dava fastidio pure lui perché parlava troppo. Ma era inevitabile perché doveva aiutare e guidare il nostro neonato burattino: infatti i suoi avversari gli hanno distrutto la memoria per un motivo ben preciso (che sapremo in seguito).

A un terzo del libro finalmente le mie fatiche sono state compensate perché questo Pinocchio postmoderno ha cominciato a farsi delle domande sul suo destino e sull'ambiente sconquassato in cui si muove, ha cominciato a ricevere delle informazioni e a muoversi con una strategia e una finalità. A poco a poco le tessere del mosaico vanno tutte a posto e si scoprono il destino, la missione e la vera natura del nostro burattino. E anche la natura dei cattivi che lo hanno osteggiato si scopre: sono dei cattivi in effetti non banali, la conclusione della vicenda mi ha soddisfatto.

Non anticipo altro, dico solo che questo breve romanzo merita una lettura. Io l'ho comprato per una cifra ridicola in formato digitale (epub), la Asengard ha fatto un'ottima mossa a passare agli e-book. Devo dire che ingrandendo il carattere per leggerlo un po' meglio c'erano un sacco di distanze strane fra i caratteri, la formattazione era un po' massacrata, ma non so se devo dare la colpa al formato del libro o al mio lettore di e-book, che forse è un po' una chiavica.

sabato 25 settembre 2010

Quattro chiacchiere su: casualità, fortuna e kingmaking nei giochi da tavolo...

Quanto dovrebbe contare la sorte in un gioco? E' partendo da questa domanda che ci siamo proposti di ragionare insieme, da blogger a blogger, Bruno e Pinco 11 di Giochi sul Nostro Tavolo. Questo nostro dialogo compare quindi su entrambi i blog, in un gemellaggio virtuale di un giorno :) Preavvisiamo che si tratta di un pò di parole in libertà, senza nessuna pretesa di sviscerare per intero il tema, ma solo con l'obiettivo di stimolare la discussione ... Ok, passiamo ora al tema, partendo prima Bruno con la sua introduzione.

Bruno: Spesso sento dire dai giocatori che lanciare i dadi è sinonimo di un gioco stupido che si basa soltanto sulla fortuna. Alcuni tra i più stimati giochi da tavolo di oggi (soprattutto tra i “eurogames”) non hanno lanci di dado o elementi casuali per niente, o quasi, e questo sembra che sia il non plus ultra. Troppa importanza della fortuna fa male a un gioco. 
Ovviamente anche io non apprezzo i giochi in cui si devono lanciare montagne di dadi, né quelli in cui circostanze importanti dipendono dall’esito del tiro. Un esempio banale del primo caso potrebbe essere il Risiko, dove la fortuna tutto sommato può considerarsi bilanciata, ma è un po’ seccante la quantità di dadi che bisogna maneggiare, per il secondo caso basti pensare a giochi di percorso come la cara vecchia tombola, dove il tiro esatto del numero di caselle da percorrere per l’arrivo è essenziale (assieme al fatto di non prendere troppe penalità).
A volte la seconda eventualità non è però necessariamente irrealistica quando si tratta di simulare qualcosa. E questa per me è la prima pulce nell’orecchio di chi ritiene ludicamente superiore il gioco senza fattore casuale. Per fare un esempio rammenterò una partita che giocai a un gioco tattico (Squad Leader) quando il mio opponente doveva attaccare con forze assai superiori (carri armati più fanteria russi) il mio drappello di difensori tedeschi: avevo il vantaggio di poter partire “nascosto” sulla mappa (con posizioni scritte su un foglietto) manifestandomi solo al momento di sparare, e lo svantaggio di avere pochi punti acquisto e di non poter prendere carri armati.
Pensando di fare una cosa saggia, piazzai su una collina due potentissimi cannoni da 88 mm e disposi i miei poveri fanti sparsi tra i boschi. Quando il nemico si fece sotto i miei cannoni ebbero entrambi due bruttissimi tiri e come da regolamento rimasero guasti entrambi. Due tiri andati male e le mie forze erano ridotte a quattro fessi praticamente impotenti.
Era una situazione in cui la sfortuna può giocare una parte troppo grande? Certamente, è proprio quello che era successo. Era anche irrealistica? No. Premesso che quel tipo di giochi (pur nella loro grande complessità) possono simulare la realtà fino a un certo punto, quello che è successo avrebbe potuto verificarsi per davvero. Ma posso capire che certe scalogne uno non le voglia vivere anche nei giochi.
Gli appassionati dei sofisticati eurogames, dove il sistema di regole è in realtà astratto e la tematica che si sta rappresentando viene spesso “dipinta sul gioco” come un’aggiunta successiva, ovviamente storcerebbero comunque il naso.

P11: Allora, c'è tanta carne al fuoco, per cui cercherò di ragionare su alcuni spunti offerti dal tuo ragionamento. Prima di tutto parto dal presupposto che la quantità di fortuna necessaria in un gioco dipende dall'obiettivo che si pone l'autore: se lo scopo è quello di far interagire delle persone, divenendo l'elemento 'vittoria' secondario, allora di conseguenza non ha senso parlare di fortuna o meno, visto che il fatto di essere meno baciati dall'alea significa solo essere protagonisti delle situazioni sulle quali si ride di più. Pensa, per esempio, a giochi come 'taboo' o 'visual game' o roba di mimi e via dicendo.
L'ambito di riferimento del nostro discorso è quindi quello dei giochi competitivi veri e propri, ossia di quelli nei quali vi sono più avversari che trovano nelle condizioni di vittoria un elemento sul quale scontrarsi: in fondo si è qui sempre davanti ad una competizione 'fra cervelli' e qui direi che se si ragionasse solo sull'aspetto matematico puro e semplice, pur complesso e mediato quanto ci pare, alla fine il gioco si ridurrebbe ad una sorta di 'esercizio' utile solo a stabilire chi ha le migliori doti, appunto, matematiche. La capacità dell'autore quindi può essere anche quella di mettere in gioco diversi tipi di abilità (gli skill , per dirla all'americana), per far si che ci sia un mix di esse richieste per delineare la figura del vincitore: prendendo ad esempio un gioco semplice come Catan, ti posso assicurare che in un brevissimo periodo in cui mi era presa la 'scimmia' mi ero segnato in un sito online ed ero arrivato, nell'arco di un mese, a vincere in certe fasi sicuramente (vado a memoria) almeno l'80 % delle partite disputate, facendo leva sulla assenza totale di negoziazioni (come accadeva quasi sempre), che rendeva il gioco, nella logica dei grandi numeri, lineare. E' chiaro che a prendersela in certe partite si imprecava contro quell'11 uscito 20 volte mentre il tuo '8' è uscito solo 5, cosa matematicamente inconcepibile (si parla di due dadi a sei facce), però ciò che conta non è la capacità del gioco di essere sempre equo matematicamente, ma quella di esserlo 'in media'.
Personalmente, per esempio, amo molto giochi come Descent, così come un amico 'astrattista' ama molto 'World of Warcraft the boardgame', nei quali si tirano manate di dadi, ma nei quali, ti assicuro, ci sono decine e decine di pagine e di regole, che richiedono una applicazione strategica tale da far risultare alla fine divertente tirarli, giusto per evitare che il gioco si riduca, alla fine, ad una colossale equazione ... Poi, se uno è un genio della matematica che invece che comprare la settimana enigmistica risolve una cinquantina di integrali presi dal libro delle superiori, allora in discorso cambia .. ;)

Bruno: Come dirò meglio in seguito, consideraro migliori quei giochi dove non ci sia la possibilità di determinare la sfida con un gran lavorìo matematico, che non trovo nemmeno divertente; dove siano le doti intellettuali della persona prese nel complesso a doversi esercitare per la vittoria.
Proseguendo e passando alla situazione opposta, mi chiedo a mia volta, qual è il vantaggio di eliminare del tutto il fattore casuale? Innanzitutto in verità i giochi dove questo fattore è veramente eliminato sono pochi. Quando ci sono carte da estrarre, l’ordine in cui si presentano è casuale e può avere effetto sul gioco. Lo stesso si può dire in qualsiasi situazione paragonabile. Se le attività degli altri giocatori possono avere effetto (sia come antagonismo che come altro tipo di influsso) su quello che noi vogliamo fare esiste comunque un fattore imprevedibile. E del resto se l’interazione tra i giocatori venisse eliminata avremmo praticamente dei competitori che giocano intorno allo stesso tavolo con le medesime regole ma ciascuno per conto suo, una cosa che certamente non vogliamo, e che però è un difetto che in certi eurogames si verifica per davvero.
Pertanto se esiste veramente gioco, nel senso di interazione, la casualità c’è anche se non si lanciano dadi, perché quello che un giocatore fa si ripercuote sugli altri in maniere difficilmente prevedibili. Ovviamente esiste l’eccezione: i giochi per due persone. Negli scacchi e nella dama, la casualità non esiste. Esiste un vantaggio per chi ha la prima mossa e di esso va tenuto conto, ma non si tira alcun dado e non c’è un terzo incomodo che può introdurre un elemento di randomizzazione nella sfida tra i due opponenti.

P11: Beh, la presenza stessa di più di due giocatori rappresenta, di per sé (salvo quando si parli di gioco a coppie, che reintroduce dalla finestra il gioco a due), un elemento destabilizzante, in quanto quello che gli americani chiamano il kingmaking (ossia l'avvantaggiare, più o meno volontariamente, con una propria azione che sicuramente non garantirà la vittoria, uno degli avversari, decidendo il vincitore) è a sua volta una fonte di aleatorietà. Non si può infatti pretendere che il gioco assicuri la possibilità di elaborare una strategia vincente a prescindere dalle reazioni altrui, se non sacrificando totalmente l'elemento interattivo, il quale, normalmente, dona invece 'divertimento' al gioco. Poi, anche qui, è una questione di obiettivi: parlando lo scorso anno con l'autore di Peloponnes, gli ponevo una domanda, segnalando che il gioco si presentava come poco interattivo e lui mi ha risposto che lo voleva proprio così e che, visto che il gioco lo produceva lui, finalmente era riuscito a proporre un gioco 'light civ' matematico come piaceva a lui ...

Bruno: Il cosiddetto kingmaking, che in questo senso si incrocia anche con la casualità, io personalmente lo reputo un male necessario e difficilmente eliminabile, ma ci ritornerò fra poco. Tornando ai giochi a due, laddove non ci sia l’alea il fattore ludico si perde rapidamente in un faticoso confronto di capacità logiche e mnemoniche più che schiettamente decisionali. Il giocatore di scacchi deve saper prevedere le conseguenze della sua mossa tenendo conto delle probabili contromosse dell’avversario, e dei più probabili sviluppi su un certo numero di turni. Per inciso, il computer fa esattamente questo, sviluppando in maniera “decerebrata” le conseguenze di un’immensità di possibili varianti, mettendole in classifica in termini di vantaggio che apportano, e scegliendo la migliore secondo i suoi parametri. E il computer ormai batte anche i più grandi maestri.
Per me quando ci si sposta su questo tipo di sforzo matematico e logico non possiamo più dire che si tratti di giocare, anche se lo dico arbitrariamente: non mi cimento sulla definizione di gioco, che come tante problematiche apparentemente semplici è sorprendentemente difficile. La frustrazione verso i giochi scacchistici e tutte le situazioni che vi si possono ricondurre l’ho di recente provata con un gioco che mi parve inizialmente molto carino nella sua semplicità: si tratta di Adaptoid della Nestor Games. Su una mappa esagonale i giocatori hanno lo scopo di catturare cinque creature nemiche o spazzar via l’avversario dal terreno di gioco. I pezzi in campo si “evolvono”, nel senso che nascono come creature indifese e immobili (ogni turno se ne può far nascere una) e sviluppano “gambe” oppure “chele” acquistando capacità di movimento e combattimento. Un adaptoid con due gambe ad esempio muoverà di due caselle, uno con una chela potrà eliminarne uno che non ne ha (ma solo se può muoversi!) e quello che ne ha due potrà eliminare quello che ne ha una sola o nessuna, e così via. Una sottigliezza importante è che per ogni arto che si aggiunge l’adaptoid ha bisogno di una casella libera in più attorno a sé per “nutrirsi”, perciò quelli più potenti o veloci diventano in realtà quelli più vulnerabili alla semplice tattica di toglier loro lo spazio vitale.
Poiché esiste la versione computer di questo gioco mi sono cimentato, prendendo batoste incredibili dal computer anche impegnandomi. Bastava però diminuire il numero di secondi che il computer poteva dedicare alla propria mossa ed ecco che cominciava a sbagliare (non poteva più calcolare tutte le variabili) e diventava possibile sconfiggerlo. Cos’era successo? Dopo l’entusiasmo iniziale capii che mi ero trovato in mano un gioco scacchistico, con una serie finita di mosse schematizzate, il paradiso per una macchina. Alla fine in questi giochi l’uomo deve trasformarsi in un processore matematico. Un gioco come Adaptoid può essere accattivante solo fino a che non si diventa esperti che giocano contro altri esperti, a quel punto sarà più una fatica che un gioco.

P11: Gli 'astrattoni', come quelli che hai citato, sono del resto una bella categoria di 'gioco' vero e proprio, alla quale mi dedico spesso 'per contagio', ossia perchè ho un amico appassionato (ha comprato tutti i titoli del progetto GIPF ed alla fine penso di averli giocati più io che lui) e di essi apprezzo, prima di tutto, la loro natura di 'rompicapo'. 
Intendo dire che io trovo divertente, in ultima analisi, nella maggior parte dei titoli astratti, la possibilità di elaborare una strategia, comprendendo i meccanismi di gioco di partita in partita: il vincere contro Tizio o Caio rappresenta poi una soddisfazione immediata, però in ultima analisi che cosa è il prevalere contro la maggior parte degli avversari se non una conferma, per altro indiretta, del fatto di aver compreso in profondità i meccanismi di gioco e di essere arrivati più vicini a risolverlo di molti altri ? Quando ero più piccolo ho giocato a scacchi per qualche anno, ma alla fine mi sono fermato di fronte alla necessità di studiare libri di partite per poter migliorare: qui lo sforzo richiesto per 'rompere' livelli successivi del rompicapo diveniva per me eccessivo rispetto al divertimento offerto, per cui , ancora, credo che si vada nel campo del soggettivo. Uno può, in altri termini, scegliersi un solo gioco, tipo scacchi o go, e passarci la vita ad esplorare e riesplorare tattiche, aperture, schemi di gioco e via dicendo, visto che si tratta di titoli che offrono una profondità enorme (ossia un albero combinatorio quasi infinito), oppure può girovagare tra molteplici titoli, soddisfacendosi (se gli piace) nel capirli uno per uno, divenendo bravo (ma non necessariamente un campione) in ognuno di essi (anche se certi titoli, non così diffusi come gli scacchi, possono consentire di divenire tra i più bravi al mondo in pochi mesi, anche se poi di 'tornei fisici' non ve ne saranno mai, mai tutt'al più online). Provocatoriamente ti chiedo: alla fine, anche in un gioco come gli scacchi, è relativamente più geniale uno che in un anno, partendo da zero, riesce a battere tutti quelli che giocano a scacchi nella propria cittadina magari di 10.000 abitanti, oppure uno che arriva magari ad essere campione provinciale, dopo aver studiato per quindici anni decine e decine di libri di scacchi, imparando da essi, ma mai sviluppando autonomamente una strategia nuova ?

Bruno: ovviamente preferisco quello che ha giocato a scacchi rispetto a quello che ha fatto degli scacchi un lavoro o una ossessione, peraltro anche io quando ho capito cosa vuol dire voler diventare davvero bravi giocatori di scacchi ho decisamente lasciato perdere.

P11: E' chiaro ancora che qui si va nel gusto personale, per cui si deve dire che ha un suo 'fascino' anche l'idea di una persona che si sia fatta accompagnare per anni e anni dalla sua passione per gli scacchi, con frequenza di circoli, amici fissi per partite fisse e così via.
Concordo comunque, in linea teorica, sulla tua conclusione che alla fine il gioco può perdere il suo aspetto ludico, per divenire, a sua volta, una specie di 'lavoro'.. Vabbè, per non divagare troppo, ti lascio al successivo passaggio del tuo ragionamento, ossia quello legato, ragionevolmente, alla classica via di mezzo, tra totale casualità e totale assenza di essa .. ;)

Bruno: Una moderata presenza della casualità in effetti è la situazione più naturale e normale nelle cose, e per questo la preferisco anche nel gioco. Quando si gioca una partita a pallone non si tirano dei dadi, ma non si può sapere esattamente se si riuscirà a far terminare un’azione in gol. Stessa cosa per una giornata in ufficio o un esame universitario o qualsiasi situazione vera o simulata di una certa complessità. Questo per il semplice fatto che non tutti i fattori sono sotto il nostro controllo e le reazioni della controparte non si limitano a mosse rigide e prestabilite come sulla scacchiera. Insomma una situazione reale o realistica non può essere ridotta a un calcolo matematico come una partita a scacchi, bisogna pensarci come esseri umani. Nella situazione ludica questo permette inoltre di godere di quella che è (a mio parere) la parte divertente del gioco, ovvero valutare le proprie possibilità e prendere le proprie decisioni fidandosi del proprio intuito. E questo le macchine non possono farlo, o almeno non sono ancora in grado. Non per niente nei giochi strategici (troppo complessi rispetto a una partita a scacchi) l’Intelligenza Artificiale deve spesso e volentieri barare per mettere il giocatore umano in difficoltà. Perciò anche se il realismo non è un obbligo, la presenza di un elemento di incertezza e casualità è a mio parere fondamentale nello sviluppo di un buon gioco. E una maniera intelligente di intrecciare le decisioni dei giocatori fra di loro è senz’altro superiore alla scappatoia del non farli interagire.

P11: Sono d'accordo anche io: la casualità del resto, se ben utilizzata nelle regole, dona anche rigiocabilità ed imprevedibilità, stimolando i giocatori ad elaborare strategie utili a far fronte a situazioni variegate. Penso qui ad un Magic: chi lo conosce sa benissimo che lo sviluppo dei mazzi (deckbuilding) garantisce a chi abbia le carte giuste e sia un buon stratega un vantaggio cosmico rispetto all'avversario, però la casualità, consistente nel fatto che magari possa uscire al nemico proprio quella combinazione 'giusta' di carte nella prima mano, mette il gamer nella condizione di pensare ad elaborare una contro strategia, divenendo elemento strategico a sua volta. Inoltre il bravo game designer può prendere l'alea come una sfida, nel senso di utilizzarla indirizzandola in modo tale da essere un aspetto divertente in un contesto di gioco non per questo casuale: del resto con i dadi, tornando al tuo esempio iniziale, come elemento di base per giochi di gestione risorse abbiamo visto numerosi esempi, tipo Kingsburg, Macao, Alea Iacta Est, nei quali non necessariamente la loro presenza si è ridotta a casualità, anzi. Sempre in questa logica, poi, penso ad Irondie, collezionabile basato sui dadi, che si propone di fondere elementi alla Magic con l'uso di dadi riccamente elaborati , così come, per andare sul 'classico', ad un backgammon. ...

Bruno: Sulla casualità alla fine pur nella diversità dei pareri individuali o delle motivazioni finiamo, mi pare, per convergere. E vedo che su questo tema i giocatori alla fine per lo più concordano. La casualità serve. Per ritornare all’argomento che hai tirato in ballo prima: il kingmaking, ovvero la possibilità che più o meno volontariamente le azioni di un giocatore ne favoriscano un altro rovinando la correttezza della competizione, vorrei fare un po’ di considerazioni. 
Per iniziare, anche se stiamo cercando di scrivere un articolo serio, parlerò di certe situazioni ridicole che alle volte ho vissuto: quando un giocatore ha una “corte” di succubi, o amici per la pelle ecc… e quindi al di là della logica della situazione ludica ci si trova ad avere dei favoritismi che portano un netto vantaggio a qualcuno. Mi è capitato di giocare una partita a Risiko (tormentone popolare che poi non è affatto male, a mio parere) in cui stavo per soccombere contro uno dei due opponenti, e come succede in questi casi chiesi aiuto all’altro, che era suo fratello minore. In una situazione normale mi avrebbe aiutato perché la mia disfatta sarebbe stata la rovina anche per lui. Invece mi disse: io non potrei danneggiare mio fratello. Mi cascarono le braccia. Cosa avevo giocato a fare allora? Non so se a Pinco 11 sia mai capitata qualche situazione del genere…

P11: beh, gli aneddoti al riguardo delle dinamiche 'metaludiche' si possono sprecare: ho gruppi nei quali sono considerato un giocatore 'bastardo' solo perchè quando compio le mie scelte di gioco non cerco solo di fare punti, ma anche di mettere gli avversari nelle condizioni di non farne troppi e questo è considerato non 'politically correct' (questa è una logica di gioco piuttosto diffusa nella sensibilità femminile). In questa chiave di lettura anche cercare di 'portare via' una città ad un'altro a Carcassonne può essere considerato 'aggressivo'. A Risiko poi anche io ho vissuto situazioni del tipo: 'devo andare, per cui mi scateno attaccando tutti quelli che posso .. ooppss .. ma è una combinazione che confini quasi solo con te ...' :) Il gioco, in ultima analisi, è anche sedersi attorno ad un tavolo per divertirsi con gli amici, per cui, spesso, quello che si impone e la logica naturale degli obiettivi di chi partecipa: per alcuni l'idea è di vincere, per altri di 'capire' le strategie vincenti del gioco e come funziona, per altri ancora solo di passare una serata insieme e chi se ne importa dei punti vittoria .. In questi casi il kingmaking è del tutto involontario .. ;)

Bruno: Più seriamente: per evitare questo tipo di aleatorietà bisognerebbe fare una gara come nell’atletica, dove ognuno ha la propria corsia e i propri ostacoli ecc… Qualcuno fa dei distinguo teorici chiamando queste situazioni delle competizioni e non dei giochi. Io resto fuori dal ginepraio delle classificazioni e mi limito a dire che ognuno si può divertire come vuole ma generalmente l’interazione è necessaria al gioco, e inevitabilmente introduce un elemento aleatorio e arbitrario di cui va tenuto conto, come anche Pinco 11 ha affermato sopra. Quindi bando a ogni discorso purista. Se mai l’interazione va gestita Alcuni eurogames hanno affrontato il tema in maniera intelligente, permettendo di danneggiare gli altri solo in maniera limitata. Il fatto che in questi giochi di solito nessuno venga “buttato fuori” dalla partita è un netto passo avanti. Facciamo un esempio ancora con il Risiko: se io elimino un giocatore e prendo le sue carte posso avere un vantaggio decisivo, almeno in certi momenti della partita. Mettiamo che il giocatore eliminato si fosse indebolito troppo cercando di attaccare: io posso vincere l’intera partita per il semplice fatto che dopo di lui tocca a me, e posso raggiungere i suoi territori per eliminarlo.
Un altro aspetto positivo del porre dei paletti all’interattività è l’evitare quelle situazioni (che troviamo anche nel solito Risiko) dove “tutti danno addosso” al potenziale vincitore. Va a finire che la partita assume un perverso aspetto psicologico, dove il giocatore che sta puntando alla vittoria cerca di far balenare al potenziale attaccante la pericolosità maggiore di qualcun altro, per smontare la classica coalizione contro di lui, nello stile delle grandi alleanze di tutta Europa contro Napoleone. Poi certo, riprendendo il discorso del realismo, sono anche esistite situazioni reali in cui tutti hanno attaccato uno solo, e anche se era il più forte alla fine lo hanno distrutto. E allora si scopre un altro effetto perverso del tutti contro uno, ovvero qualcuno alla fine ci guadagna più degli altri, e nella storia fu la perfida Albione…

P11: Tirando le file del discorso direi che in senso assoluto il concetto di 'bellezza' o 'bontà' di un gioco non può esistere: dipende infatti da quello che gli chiedi, ossia se cerchi qualcosa di più 'deterministico' o 'matematico', oppure se qualcosa che coinvolga più persone di vario livello di esperienza, tenendole tutte attaccate al tavolo senza che scappino. Personalmente ho almeno due diversi tipi di gruppi di gioco, nettamente distinti, con i quali gioco titoli completamente diversi e le 'contaminazioni' tra i due gruppi sono quasi nulle. Da una parte vanno forte i 'tedeschi', gestionali et similia, mentre dall'altra si va sul dungeon crawling , combattimento, miniature e simili. Ho poi un amico 'astrattista', con il quale solo mi trastullo a provare gli astratti.
A seconda del settore in cui ti trovi, quindi, direi che può essere richiesto al gioco rigore matematico (astratti), capacità di riprodurre situazioni reali, dove la fortuna esiste (vedi simulazioni con combattimenti, più o meno fantasiosi), oppure idoneità a coinvolgere i partecipanti in situazioni divertenti (party game). Le varianti sul tema sono poi infinite ed il discorso si può ampliare, menzionando titoli, pur tendenti al 'rigore', che cerchino di mettere in gioco, come accennavo, abilità particolari per delineare la figura del vincitore, come quella di saper 'bluffare', di saper cogliere il momento nelle aste, di saper mercanteggiare con gli altri, di avere maggiori abilità 'diplomatiche' e così via.
La fortuna quindi credo che sia da considerarsi, così come il kingmaking, come uno dei potenziali ingredienti del piatto, di alta o bassa cucina che sia, basta che sia saporito, quale rappresentazione metaforica dal gioco. Ci sono infatti le paste, le carni, i dolci e così via: in ogni categoria di piatto si possono usare diversi ingredienti, così come alcuni di essi compaiono ovunque (un pizzico di sale c'è anche nei dolci .. ;) ).
Dipende quindi di che umore sei come giocatore e cosa chiedi: si possono avere bellissimi titoli in tutti gli ambiti, ma per capire quale è il migliore, sempre soggettivamente parlando, i criteri diventano più 'rigorosi' e l'eccellenza richiede specializzazione. In questa chiave di lettura gli scacchi eccellono perchè cercano, senza mezzi termini, solo di proporre un gioco equilibrato e profondo, guidato esclusivamente dal ragionamento. E' chiaro però che questo può precludere grosse fette di potenziali giocatori ... ;)

Ok, ringraziamo chi, penso non moltissimi lettori, sia arrivato fino a questo punto a leggere questo articolo, anomalo per lunghezza, che rappresenta solo una sorta di spunto di riflessione sulle dinamiche di fondo dei giochi da tavolo, quasi a mo' di piccola 'tavola rotonda' virtuale. Fateci sapere (i pochi che avranno gradito il tutto) che ne pensate :)

-- le immagini a corredo dell'articolo sono relative ai giochi citati al suo interno, i diritti sui quali spettano alle rispettive case produttrici e sono tratte dai rispettivi siti (salvo la scacchiera, foto di Anna Cervova). Le stesse sono riprodotte ritenendo che la cosa possa rappresentare una gradita forma di presentazione del gioco e saranno rimosse su richiesta semplice --