martedì 28 febbraio 2012

Le Avventure del Barone di Münchausen


Le Avventure del Barone di Münchausen è un altro film in cui la fantasia di Terry Gilliam si è sbizzarrita. Una cittadina non meglio definita assediata dai Turchi, un esercito piuttosto malconcio che la difende, una compagnia teatrale che recita in mezzo alla battaglia (la recita nella recita, e la confusione fra realtà e immaginario sono temi che ricorrono spesso nei film di Gilliam), il sedicente Barone e i suoi amici dagli strani poteri, impegnati in una serie di avventure strabilianti: insomma, una festa sfrenata dell’immaginario.
Questo film procede senza una direzione precisa: è un continuo riferirsi a personaggi del mito come Venere (Uma Thurman) e Vulcano (Oliver Reed), accenni biblici come l’imprigionamento nel ventre della creatura marina, assurdità come il viaggio in mongolfiera sulla Luna.
Non manca un episodio che riprende la satira di Gilliam contro la burocrazia, quando un ufficiale della città assediata fa giustiziare un soldato che ha compiuto un eroismo, perché la sua superiorità sui compagni finirebbe per scoraggiarli.
Dopo molte avventure, alla fine il nostro Barone torna al suo compito principale e riesce ad affrontare i Turchi e a metterli in rotta… ma, di nuovo, la storia in fin dei conti conta poco. Il protagonista, interpretato da John Neville (attore dal volto assai espressivo, oggi scomparso), è un mattacchione sfrenato che trasforma tutto in commedia, forse un’incarnazione di Gilliam stesso, che si fa beffe del diciottesimo secolo, “Età della Ragione.” Da ricordare anche (per la buona recitazione) Sarah Polley nella parte di Sally, bambina che accompagna il Barone nelle sue avventure, dimostrandosi spesso più assennata di lui, e Robin Williams nei panni del Re della Luna.
 
Da una parte il film è il trionfo della fantasia di Gilliam, dall’altra è anche un esempio delle difficoltà che l’autore incontra spesso: molte scene sono state tagliate o impoverite per questioni di bilancio, e la produzione aveva perfino minacciato di rimuovere Gilliam dalla regia. Un film che doveva essere spettacolare e favolosamente ricco di elementi fantastici, maestosi e costosi da realizzare è diventato qualcosa di molto più modesto, si è dovuto accontentare: eppure ha ancora tracce della maestà che voleva raggiungere, e rimane vivo e travolgente.
Per la cronaca, ha causato problemi anche il tentativo di realizzare a Cinecittà la produzione (fa male dirlo, per amor di patria, ma i nostri studi non si sono dimostrati abbastanza attrezzati per realizzare gli effetti speciali).

Il fatto che la casa di produzione (Columbia) stesse passando di mano nel periodo, con l’immaginabile marasma ai vertici che questi eventi provocano, ha causato infine il disastro commerciale del film (uscito a fine anni ’80).
Strano contrasto, da una parte una favola così scintillante e piena di dettagli, dall’altra i prosaici guai quotidiani di un uomo che nonostante certi grandissimi successi sembra debba ogni volta dimostrare nuovamente di poter girare un film.

venerdì 24 febbraio 2012

I giochi sparatutto

Personalmente ne ero sicuro, ma ho trovato la mia conferma in questo articolo (che vi consiglio di leggere se siete anglofoni). I giochi spara-spara con cui la maggior parte degli ometti si rinc... ehm, si diverte, non hanno niente a che vedere con il vero combattimento, e del resto non possono aver niente a che fare con una situazione reale. Situazione reale che è sempre molto meno cinematografica (l'avversario lo vedi relativamente poco, e anche tu stai parecchio al coperto). Inoltre, e anche questo è ovvio, non ci sono supersoldati, ma sempre squadre o piccoli gruppi che operano in stretta collaborazione.
I militari che hanno sperimentato sia la guerra che i videogame pensano che questi giochi non aiuterebbero una recluta a prepararsi a ciò che l'attende, anzi sarebbero controproducenti.

Insomma, tanto vale limitarsi ai giochi fantasy. O no? non saprei, io gioco poco, e quasi solo su scala strategica.
Buona lettura.

domenica 19 febbraio 2012

In Time

Dunque: come fare a limitare la sovrappopolazione in un mondo dove tutti potrebbero vivere in eterno? Semplice, il "denaro" scompare e il "tempo" che resta da vivere diventa la misura (paranoica assai) di tutte le cose. Misura ben visibile, con il conto alla rovescia espresso in numeri luminosi che compaiono sul braccio: forse voleva essere un accenno a memorie storiche concentrazionistiche, a me sembra una delle tante debolezze del film, che comunque è spettacolare e mi ha colpito parecchio.
Riferimenti piuttosto dolorosi e puntuali all'attuale situazione di crisi economica (e politica) mondiale non mancano, anzi, per essere questo In Time un film che non rinuncia all'intrattenimento e allo spettacolo, sono assai vistosi, fa riflettere.
Il tentativo di essere credibili e spiegare gli assunti dell'ambientazione c'è, ma sia per avere dei "plot device" (ovvero appigli da sfruttare per la trama) sia perché alla fine si scade un po' in (SPOILER!!) una specie di "Bonnie e Clyde svaligiano le banche e salvano il popolo dai capitalisti cattivi," si scade in un'ingenuità piuttosto grossolana.
Il film è stimolante, ma è un festival di buone idee espresse o sviluppate male, a dire la verità. Tuttavia l'ho trovato godibile, anche se richiede un... grosso sforzo di sospensione dell'incredulità. (La mia recensione completa è su Fantasy Magazine).
Nell'immagine: Cillian Murphy interpreta un superpoliziotto che, come da tradizione, difende un potere che frega pure lui.

mercoledì 15 febbraio 2012

Jabberwocky

Il film che segna l'inizio della carriera di Terry Gilliam fuori dall'eccezionale gruppo di comici inglesi (i Monthy Python) che lo avevano accompagnato agli inizi. E' ambientato in un medioevo fantastico dove ne succedono un po' di tutti i colori, e ogni luogo comune dell'epoca è distorto, sbeffeggiato o capovolto in maniera paradossale. C'è un mostro, anche se si vede poco: il riferimento è a uno scritto di Lewis Carrol (Jabberwocky, appunto), un esercizio di nonsense come del resto buona parte delle scene di questo film.
La storia è quella del poveraccio che riesce in maniera rocambolesca a sopravvivere a diverse avventure, e a sposare una principessa; la maniera in cui è racontata è comica, ribalda, satirica e (soprattutto) divertente.
Il protagonista (Michael Palin, uno dei Monthy Python) è un ragazzo semplice di nome Dennis, ma non del tutto uno sciocco, infatti avrebbe delle idee per migliorare gli affari del padre artigiano, che però non ne vuole sapere e in punto di morte rivela al figlio di disprezzarlo per questa sua vena commerciale.
Dennis si trova diseredato e decide di andare in città, lasciando la sua amata Griselda (Annette Badland), una ragazza brutta e sgraziata che non vuole peraltro sapere niente di lui e lo ignora completamente, sebbene per una serie di circostanze rocambolesche Dennis non se ne renda conto. In città però c'è una gran crisi, per via del mostro che devasta i dintorni. Il re, Bruno il Discutibile (Max Wall), ha deciso di scegliere un cavaliere per affrontare il mostro, e la selezione avviene per mezzo di un sanguinosissimo torneo, cui assite la popolazione e il re stesso con la figlia, che viene raffigurata in atteggiamenti infantili (a volte annoiata che si regge il mento con la mano, a volte che ride e si diverte per il massacro).

Dennis è braccato dalle guardie poiché è dovuto entrare illegalmente in città: infatti non poteva dimostrare di avere mezzi di sostentamento. Ha diverse avventure, in cui se la cava sempre per un pelo e spesso in maniera rocambolesca. Finisce casualmente negli appartamenti della principessa mentre fa il bagno. L'ingenua principessa lo scambia per il classico principe azzurro venuto per lei, e gli corre nuda tra le braccia mentre le ancelle e le suore corrono per coprirla. E' fin troppo desiderosa di sposare il suo eroe, ma Dennis vuole la sua Griselda, e non desidera diventare re, né è destinato all'impresa di uccidere il mostro.
Ma il destino ha in serbo altri paradossi...

Trama un po' spezzettata, a volte rischia di disgregarsi (come certi film dei Monthy Python) in un collage di gag; gusto per il bizzarro e il paradossale, un po' britannico, mischiato alla tipica ribalderia di Gilliam. Tra le tematiche del film la satira sulla burocrazia, tema che rivedremo in Brazil: negli atteggiamenti soffocanti dell'araldo del re, e nella scena in cui un maestro artigiano molto ammirato da Dennis, ma condannato a non poter praticare la sua arte per via del monopolio della gilda cittadina, vive di elemosina dopo essersi amputato un piede.
La principessa svampita (Deborah Fallender)

Il film mostra i suoi anni (è del 1977) ed è stato girato con un budget evidentemente modesto. Gilliam non è regista da farsi intimorire da questo aspetto: il suo uso degli effetti speciali seppur appariscente non punta nemmeno al realismo, del resto. E' un aspetto che gli è rimasto in comune con i Monthy Python anche se va notato che, in altre occasioni (L'Esercito delle Dodici Scimmie, ad esempio) Gilliam ha utilizzato i mezzi più cospicui messigli a disposizione per creare ambienti fantascientifici solidi e credibili. L'impatto visivo di Jabberwocky è un po' deprimente anche perché la città dove si svolge buona parte dell'azione è mostrata come misera e malridotta, e il castello del re è cadente, buio e pieno di ragnatele. Il mostro del titolo è decisamente realizzato con mezzi miseri; anche se in alcune scene lo stile rutilante di Gilliam ritorna, non si può dire che le immagini di questa pellicola siano appariscenti.

Detto questo, ho trovato piacevole questo film così bizzarro e divertente, sia pur privo dei lussuosi effetti speciali che spesso prendono il posto delle idee in tante pellicole più recenti. Jabberwocky si vede (o rivede) molto volentieri.

lunedì 13 febbraio 2012

Solo editoria a pagamento?

In una pagina web, la promessa di dimostrarci che l'editoria in Italia è tutta "vanity," tutta a pagamento. Si comincia a spiegare che lo spazio in libreria è praticamente in affitto senza alcuna questione di merito, si proseguirà prossimamente con un articolo sui blogger (sono proprio curioso).
Leggete qui... che ne pensate?

martedì 7 febbraio 2012

La Nave dei Folli

Seguito del Treno di Moebius di cui ho parlato in un precedente post, la Nave dei Folli (autore Alessandro Girola) riprende la medesima ambientazione e in un certo senso la stessa storia, approfondendola un po'. Abbiamo in effetti un altro aspirante cacciatore di scoop e sorprese, Enrico, fidanzato di quella Martina che scompare nel libro precedente: come la sventurata troupe del primo libro, Enrico andrà in cerca di verità e conferme nella dannata località toscana di Monteflauto. La prima parte dell'indagine è un po' scontata, ovviamente, perché si tratta della stessa faccenda. In verità i protagonisti ne sanno poco, perché la precedente spedizione non ha potuto raccontare molto di sé, ma il lettore sa parecchio di più di loro. Almeno all'inizio.

(Da qui in poi: allarme spoiler fino alla fine del paragrafo).
Il gruppo ha una guida d'eccezione, un vecchio ma arzillo esponente delle forze dell'ordine che ai tempi aveva seguito parte della faccenda, sapendo che altri organi del sistema erano al corrente di qualche segreto: ma con tutta la buona volontà ne aveva potuto capir ben poco. Anzi, la sua curiosità gli era costata un allontanamento, per mezzo di trasferimento a località lontana dal luogo del fattaccio. Altri personaggi si aggiungono a formare un nucleo eterogeneo e male assortito; non manca la bellona, stavolta bionda e un po' androgina, che prende molto spazio nei pensieri di Enrico. Se alcuni aspetti ripetono il libro precedente, l'ambientazione è ampiata, e si viene a sapere molto di più sui misteri che da parecchio tempo coinvolgono questa zona dell'Appennino. Il mondo misterioso che c'è dall'altra parte si rivelerà comunque piuttosto ostico e mortale, impedendo qualsiasi esplorazione in profondità. Ma il finale, sebbene veda qualcuno tornare indietro vivo, aprirà ben altri problemi.

Questo libro rispetto al precedente è più lungo e articolato, ha una maggior forza descrittiva, ci svela qualcosa di più, anche se ricalca in parte avvenimenti già raccontati e con dinamiche simili. I personaggi sono abbastanza ben fatti, nel senso che si tratta di tipi relativamente poco descritti o stereotipati, ma vanno bene per questo tipo di storia. La trama d'azione è ben sviluppata e sa prendere l'attenzione del lettore.
Quelli che a mio parere sono riusciti male sono alcuni dei dialoghi, degli stati d'animo e dei comportamenti, che rivelano un'ispirazione forse filmica, fatta di citazioni e rielaborazioni, quasi fosse il travasare su carta di un'immaginazione di tipo cinematografico. Ne derivano pensieri, dialoghi, soluzioni a volte troppo semplificati, e lo si vede nelle interazioni dei personaggi, in qualche decisione a mio parere poco spiegabile (e poco spiegata), o anche nei pensieri di Enrico, il cui punto di vista vediamo più spesso.

(Qui un altro paio di spoiler). Per fare un piccolo esempio, di lui vediamo che pensa alla povera Martina ma pensa anche, e soprattutto, all'incredibile successo che potrebbe schiudere le porte davanti a lui (se solo portasse qualche filmato indietro e si salvasse). Enrico viene accusato di egoismo dalla nuova protagonista femminile, e lui stesso si interroga sul proprio sentimento. E' un fatto su cui si indugia troppe volte senza peraltro farne un'evoluzione credibile: ovvero non vediamo Enrico dapprima preoccupato e interessato a capire la sorte di lei, e poi affascinato maggiormente dalla possibilità che vede concretizzarsi: lo vediamo tante volte, praticamente, nello stesso stato mentale, come se fin dal primo momento avesse già la conferma di poter fare lo scoop e della ragazza gliene fregasse relativamente poco.

Allo stesso modo il ragionamento dei nostri eroi è "zippato" in una maniera troppo sbrigativa quando si trovano a dover abbandonare uno di loro che è stato infettato da una specie di parassita (stile Alien, più o meno). Da gente normale ti aspetti che se lo tirino dietro in qualche modo, pensando che magari un chirurgo, se intervenisse in tempo, potrebbe ancora salvare il disgraziato. Invece tutti decidono che tanto non c'è nulla da fare e senza esitare lo abbandonano. Non vorrei andare a fare una spedizione di qualsiasi genere con questi signori! Scherzi a parte, ci vedo un po' la frettolosità dell'autore di infondere la sua convinzione che quel personaggio è ormai andato (l'autore lo sa, ma i compagni del malcapitato possono esserne sicuri?) e la sua precognizione sul fatto che non si potrà comunque portarlo da un medico (infatti di lì a poco avremo una ritirata piuttosto concitata).
Da questo punto di vista, direi che le mie osservazioni richiamano molto quelle che avevo scritto per il commento sul Treno di Moebius, sono del parere quindi che questo sia un aspetto su cui l'autore deve ancora migliorarsi.

venerdì 3 febbraio 2012

La Figlia della Ladra di Sogni

Ci ho messo un po' di anni a scavare nella mia lista di libri da leggere, anche perché spesso e volentieri facevo sì che qualcosa di nuovo e più moderno lo sorpassasse. Alla fine "per dovere" l'ho letto, ma con abbondanti preavvisi sulla tragica realtà: non è un bel libro. La Figlia della Ladra di Sogni è una delle continuazioni "post mortem" delle avventure di Elric di Melniboné, personaggio eccelso di Michael Moorcock: di entrambi ho parlato parecchio in questo blog.
Ceduta già la parte principale della suspence, dando al lettore la certezza che a me il libro non è piaciuto, ne parlerò anticipando la trama liberamente (il mio parere dev'essere particolarmente inutile in un caso come questo: se siete fanatici di Moorcock il libro lo leggerete ugualmente, anzi, lo avete probabilmente già letto; altrimenti non vi capiterà in mano se non per sbaglio).

In questo libro il protagonista è un nobile tedesco, un certo Ulric von Bek, membro di una famiglia nobile, che ha vantato nel tempo diversi personaggi eccentrici o misteriosi. Siamo negli anni immediatamente precedenti la Seconda Guerra Mondiale e il nostro nobile vede, con prevedibile sprezzo aristocratico, l'ascesa dei nazisti minacciare le sue stesse fortune. C'è infatti un suo cugino, Gaynor, finito nel partito nazista per opportunismo, che comincia a tormentarlo riguardo a un cimelio che tiene nella sua magione: guarda caso, si tratta di una spada (e guarda caso, Ulric è albino)...
Nella questione è coinvolto anche il Sacro Graal, che serve alla vittoria hitleriana: Gaynor lo chiede insistentemente ma von Bek pensa sinceramente che non abbia mai avuto a che fare con la sua famiglia. Comunque sia, i nazisti cominciano a braccare il nostro nobile tedesco, che si affida alla Rosa Bianca per fuggire (prima e non ultima forzatura storica: la Rosa Bianca viene presentata come una potente organizzazione che può organizzare la fuga di Bek all'estero: in effetti erano un gruppo di studenti che distribuivano volantini nella propria città).
Finalmente i soccorsi arrivano, salvano il nobile da un lager, e tra i resistenti si trova Oona, la figlia della ladra di sogni del titolo (la ladra di sogni è un personaggio di un precedente romanzo di Moorcock). La ragazza, che è figlia di Elric di Melniboné (quello vero), aiuta Ulric (un alter ego di Elric nel multiverso di Moorcock) a fuggire dai nazisti portandolo in una grotta da cui si accede a un mondo sotterraneo di acque luminose, stupende formazioni rocciose, e con un oceano. Eh già, il tutto sotto la Germania.

Ovviamente si tratta del multiverso di Moorcock, che in questo libro viene espresso in molti modi: a volte Elric è una specie di fantasma per Ulric, a volte sono la stessa persona, poi si separano, uno dei due è in uno stato semi onirico, ecc... Il multiverso stesso è come un intrico di sentieri e vie luminose, come un albero dai rami argentei che possono venir percorsi. Oona è una delle guide che sanno districarsi in queste dimensioni parallele. Io non ho mai trovato attraente questo espediente del multiverso, meno che mai in questo libro dove si entra nel dettaglio a spiegarne il perché e il percome. Sfiancante pretesto per permettere all'autore gli accostamenti più stridenti (ne La Figlia della Ladra di Sogni ce n'è diversi), tedioso quando il lettore percorre queste tappe sperando che finalmente si arrivi al dunque, debole come artificio letterario.

Tornando alla fuga di Ulric von Bek, il nazista Gaynor lo insegue anche sottoterra, assieme ai suoi bravacci in divisa (tra cui spicca l'assistente Klosterheim, che avrà l'onore di piantare due proiettili in corpo a Elric, prima di morire nel finale). Una razza di saggi, colti, equilibrati (ecc... ecc...) uomini sotterranei, gli Off-Moo, protegge i nostri fuggiaschi e Gaynor sembra fare la fine dello sciocco perché le sue armi vengono bloccate con facilità, e il drappello nazista non può né vincere la sfida né tornare indietro. In realtà non è così, perché Gaynor in realtà conosce la magia e si rivelerà un pericoloso avversario. Diciamo pure che è uno dei difetti del libro, descrivere i nazisti come deficienti e pavidi, e Gaynor in particolare come un illuso e un buffone, e poi renderli (quando fa comodo) avversari temibili e tenaci.

Per salvare il mondo gli eroi dovranno lottare parecchio: ricompare Tanelorn, la pacifica città che resiste sia alle divinità del Caos che a quelle della Legge, ritornano i draghi, che, ahimé, andranno ad abbattere gli Stukas nella battaglia d'Inghilterra, avremo duelli tra spade che divorano l'anima e nazisti con pistole mitragliatrici (roba da piangere). Compaiono anche divinità della Legge, il Duca infernale Arioch, gerarchi nazisti e via discorrendo. Il trio Oona, Ulric ed Elric qualche volta se la cava per un pelo, qualche volta si separa, spesso vince ma non riesce a chiudere la partita e deve zompare in un'altra dimensione per bloccare la prossima follia di Gaynor e Klosterheim, ma l'avventura non riesce a prendere il volo in nessun momento.
Io mi chiedo, dopo aver letto questo libro loffio e pesante, solo una cosa: Moorcock si è accorto che stava prendendo ormai per i fondelli se stesso e le cose buone che aveva fatto in passato?
Da non crederci. Per la miseria, che brutto libro.

(L'illustrazione si riferisce a una delle pubblicazioni del Gioco di Ruolo prodotto dalla Chaosium sul mondo di Elric)



mercoledì 1 febbraio 2012

The Innkeepers

Devo la visione di questo sconosciutissimo film dell'orrore ai commenti ammirati letti in rete. Dal momento che i film horror, con qualche eccezione, mi fanno ahimé pochissimo effetto, ero curioso di sperimentare se questo fosse veramente un bel film, e la controprova sarebbe stata ovviamente l'effetto che mi avrebbe fatto.

The Innkeepers parte in un prosaico e banale hotel, dove sono di turno due prosaici e annoiati impiegati che ricoprono alla bell'e meglio tutte le mansioni (dormendo in stanze dell'hotel medesimo) perché il posto è in via di chiusura e ci sono solo un paio di stanze occupate.
I due personaggi sono Luke (Pat Healy), un tipo un po' sciatto, cinico e con qualche tratto di carattere rognoso (ma non cattivo), il classico tizio che se ne frega di apparire perché coltiva "altri interessi" al di là del suo banale quotidiano, e Claire (Sara Paxton, imbruttita a tutti i costi per darle un'apparenza piuttosto scialba): di questa ragazza sapremo che è una grande ammiratrice dell'attrice in declino Leanne perché la incontra in quanto è una delle due ospiti presenti (la Leanne è interpretata da un'invecchiata Kelly McGillis, così bella ai tempi di Top Gun... sic transit gloria mundi). Entrambi i nostri impiegati d'albergo sono descritti, per farla breve, come persone modeste e non brillantissime, ma hanno un interesse in comune, quello dello spiritismo. Luke e Claire sono al corrente di una leggenda riguardante l'hotel, ovvero la morte di una ragazza, tanti anni prima, Madeline O'Malley. E se ne vanno in giro con un registratore per captare eventuali fenomeni elettromagnetici legati al fantasma. Luke dice di aver visto qualcosa in passato. L'attrice Leanne, con cui Claire riesce a stabilire un minimo di rapporto fino a scoprire che s'interessa di fenomeni medianici, conferma che c'è qualcosa che non va. Eppure per un bel pezzo non si vede niente, nulla che non possa essere interpretato come uno scherzo della suggestione.

Il regista, lo sconosciuto (semi-) arrembante Ti West, sfrutta tutto il repertorio, usando campi lunghi, primi piani claustrofobici, movimenti e pose ben studiati della telecamera... prendendosi sapientemente tempo, montando una tensione fortissima.
Usa magari anche qualche trucchetto vecchio e bolso, ma non ha paura di sviluppare la sua storia lentamente. Gioca a banalizzare abituando lo spettatore al fatto che non succeda niente, non ci sia veramente pericolo, ma lo cuoce nell'attesa e nel dubbio. Questo gioco riesce a fare effetto, mi stavo quasi chiedendo se non fosse meglio guardarmi il film in pieno giorno e non verso mezzanotte... ma a quel punto si è arrivati al dunque, e il dunque non centra nel segno.

Qui dovrò fare qualche anticipazione (pregando chi non volesse leggerla ad accomodarsi al prossimo paragrafo). Il primo fenomeno un po' concreto è in realtà un sogno, ma appare decisamente modesto: il classico lenzuolo, un po' come il fantasma formaggino delle barzellette, sotto cui c'è il volto putrefatto della povera Madeline. Poi arriva il primo personaggio veramente allucinante, un vecchio che vuole una determinata stanza, anche se detta stanza si trova nell'ala dell'hotel che è già chiusa: e capiamo che sta per succedere veramente qualcosa, che c'è un appuntamento con la morte. Ma il colpo finale non arriva. Qualche spruzzo di sangue, il volto putrefatto di Madeline, una scena madre finale in cui tutto viene intelligentemente lasciato nel dubbio: qualcuno muore, ma sono stati i fantasmi o è stata l'immaginazione? Alla fine la tensione evapora con un effetto deludente e anticlimatico.

The Innkeepers più che un film innovatore mi sembra un recupero delle solide e sperimentate tecniche del genere, ma si spinge al di là del solito abuso di sangue e budella, o della classica casa stregata da brivido: copre la minaccia con una patina di normalità (lo scetticismo, i prosaici ambienti dell'hotel un po' vecchiotto ma non cadente e sinistro). A volte fa effetto, dà veramente un brivido, a volte viene il latte alle ginocchia per riconoscere subito qualche tipico elemento classico dell'horror su cui ormai si scherza sopra (Claire, ma perché vai di nuovo giù per quelle scale?), quando si arriva al dunque manca però l'idea che faccia colpo, che sia orrida e sconcertante sul serio. Film che nonostante la lentezza con cui si sviluppa (o proprio grazie al fatto che si prende i suoi tempi) riesce a creare una forte atmosfera, ma privo di impatto. Per dare l'idea, The Ring, finché dura la forza d'urto dell'idea centrale, è cento volte più potente, al di là di quanto possa essere paradossale o sciocco, o anche organizzato male nella versione americana.
Giudizio finale: paradossalmente, Innkeeper è un bel film, ma non è particolarmente riuscito come film dell'orrore.