Provocazione: quando una donna partecipa a una guerra di liberazione, dovrebbe chiedersi: la liberazione di chi?
Il caso che prendo in esame in questa occasione è quello della lotta partigiana in Yugoslavia. In questa occasione le donne combattenti si trovarono a combattere contro un invasore esterno (i vari paesi dell'Asse componenti le forze di occupazione: Italia, Germania, Ungheria, Bulgaria) e contro le varie milizie locali portatrici di ideologie conservatrici o anche non molto diverse dal fascismo. Si trattò allo stesso tempo di un'affermazione femminista, di una rivoluzione (comunismo) e di una lotta nazionalista (contro le forze che volevano disgregare la Yugoslavia).
Il libro su cui mi sono basato è Women & Revolution in Yugoslavia di Barbara Jancar-Webster (editore: Arden Press), ed è del 1990: le osservazioni che fa sulla società Yugoslava le ritengo abbastanza datate perché sono state espresse appena prima dell'ondata che ha spazzato via questo stato ex-comunista, cui sono succedute varie repubbliche indipendenti. Abbonda di analisi statistiche fatte su campioni un po' troppo modesti, e ricerche su testi che parlano solo di donne aderenti all'ideologia comunista allora dominante. Presenta tuttavia un certo numero di riflessioni interessanti.
In Yugoslavia, paese estremamente arretrato da tutti i punti di vista, la guerra ha portato le donne improvvisamente nella società, ma in termini maschili, ha dato loro consapevolezza, ma non in maniera da poter cambiare valori e istituzioni. Per capire questo passaggio l'autrice si rifà agli schemi elaborati da due studiose della storia delle donne (da un punto di vista di genere), Gerda Lerner e Kathryn Sklar, individuando quattro stadi di consapevolezza femminile:
1- Sapere di aver subito un torto collettivo
2- Cercare di realizzare cambiamenti sociali, politici ed economici con iniziative sia individuali che collettive
3- Lo sviluppo di forme culturali specifiche delle donne, se necessario autosegregandosi dagli uomini (questo punto poco realizzabile nei paesi socialisti, dove una simile libertà è impensabile)
4- Realizzare nuovi modi del vivere (pensare, agire) concependo il mondo come centrato sulla donna
Le donne in Yugoslavia per mezzo della lotta partigiana sono divenute consapevoli del primo punto, ma non hanno avuto l'acume politico e organizzativo che sarebbe servito per prendersi maggior potere dopo il conflitto.
Per la Jancar la rinascita femminista degli anni '70 (con la consapevolezza che le donne non erano libere nemmeno sotto il comunismo: che sorpresa, eh?) sarebbe la continuazione delle aspettative innescate con il finire della guerra. Non ho elementi per contraddire la tesi (non sapendo nulla del femminismo in Yugoslavia negli anni '70 e oltre), ma neanche motivi per crederci: mi sembra più facile pensare che sia stato un vento venuto da occidente a far rinascere certe aspirazioni. Forse la Jancar è stata influenzata dai contatti con le "intellettuali" del movimento, che in parte erano le stesse donne che avevano combattuto in guerra 30 anni prima. Peraltro, ironia della storia, proprio la nazione che era stata teatro di una partecipazione femminile così importante è stata dilaniata da un conflitto dove lo stupro etnico e la violenza sul corpo delle donne sono stati i mezzi con cui una comunità sgomitava contro l'altra per il possesso del territorio.
Ma torniamo alla lotta partigiana, cominciando da alcune cose da sapere sulla resistenza in Yugoslavia: la nazione si era formata con l'unione di alcune piccole entità (ci sono note oggi in forma di nuovi stati sovrani) che non si volevano affatto bene e che differivano su diversi aspetti sociali, culturali e religiosi. L'unione si rendeva necessaria per contare qualcosa in un paesaggio molto burrascoso, quello dei Balcani.
Dopo l'occupazione da parte di Italiani e Tedeschi il paese è "esploso" in una guerra di tutti contro tutti sia per queste differenze preesistenti, sia per la difficoltà del terreno che impedì ai conquistatori di imporsi definitivamente, sia per l'influenza del comunismo: pochi mesi dopo l'occupazione della Yugoslavia scattò l'attacco contro la Russia e Stalin per reazione incoraggiò l'attivarsi di un movimento di resistenza comunista (che aveva già delle strutture collaudate, visto che il partito era messo al bando da prima del conflitto). Altri movimenti molto forti erano quello dei Cetnici serbi e degli Ustascia croati. Entrambi interessati all'affermazione della propria etnia, entrambi strumentalizzati dai paesi dell'Asse, entrambi colpevoli di enormi massacri contro gli altri popoli.
Il movimento di resistenza comunista riuscì a prevalere e a guadagnare consensi sia per le promesse di cambiamenti sociali (creazione di un mondo nuovo ecc...) sia per la riaffermazione del carattere nazionale della lotta contro coloro che combattevano per le proprie piccole patrie, sia per la tolleranza religiosa (promessa poi mantenuta solo in parte). Peraltro aggredì così decisamente le forze dell'Asse da causare spaventose rappresaglie e un carattere di guerra di sterminio forse peggiore di quello che si vide in Russia.
Le donne vennero inquadrate solo inizialmente in unità di sole donne, poi mescolate agli uomini. Per lo più erano giovanissime anche sotto i 20 anni: aderivano d'istinto, attratte dall'idea del cameratismo e della lotta. Spesso ignoranti contadine (come la maggior parte della popolazione), spesso spinte alla lotta dalla distruzione degli affetti, della casa e della comunità, tema che vediamo spesso nel retroterra delle donne combattenti e peraltro motivazione che aveva spinto già in passato le donne di Macedonia e Montenegro a combattere i Turchi, in una lotta non meno spietata della Seconda Guerra Mondiale.
Le combattenti furono circa centomila e le due mansioni principali furono quelle di infermiere e combattenti di prima linea. Se la prima non era un'occupazione priva di rischi, la seconda portava spesso alla morte nel giro di qualche settimana, magari alla prima battaglia. Molte rimasero sterili per le privazioni sofferte. La mortalità del 25% resta comunque al di sotto di quella dei partigiani maschi (38%).
Sul campo c'era uguaglianza e veniva imposta una stretta moralità. Questo contrasta con la percezione che nelle zone più tradizionali del paese (ad es. musulmane) si aveva della drugariza (ovvero compagna: la partigiana comunista), vista come poco femminile e promiscua. In realtà nei ranghi superiori e nei comandi questa moralità comunista veniva meno, tra amanti, belle segretarie per i leader, ecc...
Le donne partigiane yugoslave sono state accusate di atrocità indicibili e di provar piacere a uccidere, ma del resto ciò si inquadra nel tipo di guerra che si svolse in quel periodo.
Politicamente le donne avevano il loro inquadramento in un fronte femminile antifascista (AFZ), ma verso la fine del conflitto Tito decapitò questo movimento inquadrandone la leadership nel partito comunista, affermando che era necessario soprattutto mobilitare le risorse delle vaste zone che erano state liberate e cominciare a coordinare la ricostruzione (politica e materiale) per il dopoguerra. Non so quanto questa leadership femminile avrebbe potuto influenzare la Yugoslavia del dopoguerra, va detto comunque che trattandosi di un paese comunista autonomo e non di un satellite dell'URSS, forse avremmo potuto vedere delle cose sorprendenti.
Non fu così. Tito era contro le donne? Non proprio, anzi le incoraggiò a prendere responsabilità in politica e sul lavoro. Quello che non voleva era il sopravvivere dell'AFZ, una organizzazione di done inquadrata dalle donne: sarebbe stato come ammettere che il comunismo non andava bene per loro. Comunque sia, la guerra fu un acceleratore potentissimo per il progresso delle donne in Yugoslavia e la principale promessa di Tito (dare uguali diritti civili) venne mantenuta.
Ma dentro il partito i problemi femminili non si posero più, e i ruoli di potere per le donne rimasero limitati. E col senno di poi sappiamo anche che, quando l'autrice di questo libro ipotizzava che la fine del periodo comunista avrebbe aperto nuove opportunità per il femminismo, quello che si preparava invece era il delirio etnocentrico dei vari popoli yugoslavi.
Pur non essendo particolarmente incline al femminismo (e pur pensando che nel caso in questione difficilmente le cose sarebbero potute andare in un altro modo) trovo che la domanda iniziale di questo libro sia interessante: le rivoluzioni significano qualcosa di diverso per uomini e donne? E perché?
2 commenti:
Molto interessante questo articolo sulle donne partigiane in Yugoslavia. Rispondere alla domanda del libro non è facile, probabilmente non significa la stessa cosa per ogni persona, a prescindere dal sesso, perché ognuno la vive a seconda del proprio profilo psicologico, motivazioni, condizione sociale, ecc.
Ad ogni modo la rivoluzione è un po’ come una malattia, nel senso che vive un periodo di incubazione e non si manifesta dalla mattina alla sera. Spesso attraversa diverse generazioni e alla fine una di queste trova l’ambiente giusto per “infettare” la società, proprio come la malattia.
A me le rivoluzioni piacciono, e in questo periodo ne abbiamo bisogno, ma il problema e che servono a ben poco, proprio perché le motivazioni che spingono gli individui sono molto eterogenee e spesso non si capisce con chiarezza la loro finalità o questa cambia a seconda di come questa si evolve.
@ Lulu: Le rivoluzioni ottengono dei risultati, quando vincono, ma non sono mai i risultati per cui la gente si è fatta ammazzare.
Non so dirti se mi piacciano o no, sinceramente.
Per quanto riguarda l'incubazione, certamente se non è il momento (storico) in cui doveva riuscire, la rivoluzione fallisce, e non importa quanto ci teneva e sperava il singolo tizio che ha sputato l'anima.
Qui, visto che questo post fa parte di una serie sulle "eroine" combattenti, volevo occuparmi di donne leader in una lotta femminile ma tutto sommato ho trovato una situazione diversa. I "quadri" con una formazione politica e culturale appartenevano anche al partito comunista e quindi per volontà del "capo" hanno incassato un successo parziale ed è finita lì. Se centomila donne hanno preso le armi è più che altro per via della situazione pazzesca che si era verificata nel paese, tale da impedire di aspettare semplicemente che passasse la tempesta, come hanno fatto per esempio gli italiani, nella maggior parte dei casi.
Perciò non ho visto in questo libro la storia di una gran rivoluzione femminista tradita. Resta il fatto che le premesse sembravano diverse da quello che poi è stato. Ma questo si potrebbe dire di tutte le aspettative di chi ha partecipato a una lotta di ispirazione comunista e poi ha vinto.
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