Un altro film sulle famigerate imprese della "famiglia" di Manson, ma visto da un'angolazione diversa dal solito. Charlie Says, diretto da Mary Harron (nota per la regia di molti film indipendenti), narra della storia di tre delle ragazze hippy della "famiglia" detenute in isolamento dopo essere state condannate per gli omicidi commessi. La storia è basata su fatti realmente accaduti: un'antropologa che lavora con il carcere, Karlene Faith, cerca di instaurare un dialogo con loro (è interpretata da Merrit Wever, che forse avete visto in The Walking Dead).
Le tre ragazze, tutte condannate al carcere a vita, sono:
Patricia Krenwinkel (detta Katie nella banda di Manson), che aveva fatto parte del gruppo già da un certo tempo, e attivamente partecipe negli omicidi. È interpretata da Sosie Bacon (13 Ragioni perché) e nel film sembra la più sicura e convinta del gruppo.
Leslie Van Houten (Lulu), ha partecipato a uno degli omicidi con una certa goffaggine e confusione. Era ai tempi una ragazza carina, nelle foto non ha nulla dell'aria smarrita e incerta dell'attrice che la interpreta nel film (Hannah Murray, vista in Game of Thrones), che inoltre non le somiglia. Nel film è un personaggio centrale.
Susan Atkins (Sadie), morta alcuni anni fa, ha partecipato a quasi tutti gli omicidi commessi dalla "famiglia." Incarcerata prima delle altre due, rivelò incautamente ad altre detenute informazioni che portarono l'arresto di Krenwinkel e Van Houten, e altri, risolvendo finalmente il caso dell'omicidio di Sharon Tate. Ritornata al cristianesimo, nel film è poco collaborativa verso Karlene. È interpretata da Marianne Rendòn.
Il film ci offre i progressi di Karlene nei colloqui con le carcerate (inizialmente scarsi) intervallati con le scene del passato.
Molti dettagli mostrano Charles Manson come un manipolatore, un hippy molto particolare, che apparentemente offriva libertà ma si rivelava poi propenso all'abuso, maschilista e razzista. Le donne della "famiglia" procurano il cibo andando a rovistare nella spazzatura degli altri, ma mangiano dopo gli uomini, possono essere prese a ceffoni quando il leader è di cattivo umore, devono accoppiarsi a comando quando c'è da ottenere favori da qualcuno, devono credere e obbedire ciecamente. Credere, anche quando Manson prevede la fine del mondo, afferma di poter trovare un mitico rifugio sotterraneo, e di poter scatenare una guerra razziale tra neri e bianchi, che vedrebbe lui e la sua banda destinata a prendere poi il controllo dei neri vincitori, perché sarebbero stupidi e non saprebbero cosa fare.
Tuttavia, a mio parere, il film non spiega affatto il motivo del successo di Manson come leader, per quanto fosse in effetti a capo solo di un gruppo di strafatti. Il lavaggio del cervello non l'avevano subito solo le donne della "famiglia" ma anche gli uomini. Non ho trovato una spiegazione convincente su perché avesse tale magnetismo sulle persone; tra l'altro, diversamente da altri personaggi con simili caratteristiche esistiti nella storia, lui lo si può vedere anche in immagini filmate reali, e per quanto sia certamente inquietante non sembra così irresistibile. Per inciso, la produzione ha scelto di farcelo vedere come un uomo di alta statura (interprete: Matt Smith, visto in Doctor Who) mentre era invece decisamente basso.
Quello che è evidente è il bisogno delle tre carcerate di continuare a credere. Da qui il continuo "Charlie says" dei loro discorsi: se una cosa l'ha detta Charlie, è vera e non va discussa. Le cose che Charles Manson aveva detto loro sono delle assurdità, che sembrerebbe facile demolire, ma non è facile sfondare nella barriera opposta dal gruppo.
Parlando con una funzionaria del carcere, Karlene lamenta che finché saranno tenute in celle contigue continueranno a farsi il lavaggio del cervello fra loro, e sarà difficile farle ragionare. Ma le tre, che erano state inizialmente segregate in attesa della condanna a morte poi revocata, non possono essere ancora trasferite alla popolazione generale del carcere, in quanto ritenute pericolose.
Karlene si rende anche conto di una conseguenza del suo lavoro (se riuscisse a portarlo a termine): se si renderanno conto davvero di quello che hanno fatto, le tre soffriranno terribilmente. Ma lo scopo per cui si sta in carcere del resto è quello. Comprendere ed espiare. Il che significa, inevitabilmente, soffrire.
L'impostazione femminista del film la trovo criticabile. Non per questioni di principio, perché ovviamente le tre carcerate del film hanno subito lavaggio del cervello e abusi proprio da un uomo che parlava di libertà. Ma perché quando c'è una violenza o una prepotenza da parte di Manson, o una ingiustizia nelle regole della "famiglia," Leslie/Lulu sembra accorgersene eppure non fa nulla, come se si trovasse nella condizione di una casalinga che subisce abusi, come se ogni suo flashback fosse il playback ad uso della regista per farci vedere quello che è successo, secondo una certa angolazione ideologica che rende le ragazze vittime innocenti. Intimidita e ipnotizzata. Il punto di vista di Leslie è quello con cui ci viene raccontata la storia, ed è un punto di vista distorto nella sua eccessiva compassione, nello scaricare le colpe su altri. Le protagoniste di questa brutta vicenda erano fanaticamente convinte di quello che facevano, e ci hanno messo anni per avere una "presa di coscienza." E anche quella di loro che sembra la meno violenta (Leslie, appunto) ha partecipato a un omicidio.
Per tornare alla storia, lo spettatore è di fronte a una domanda. Arriverà la catarsi e la redenzione? E come? Vi consiglio di scoprirlo vedendo il film. Bel finale, comunque.
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