Colin Duriez, scrittore inglese, parla del rapporto tra bene e male. La visione del male sarebbe agostiniana, in Tolkien: ovvero il male non avrebbe una ragion d'essere di per sé, ma esiste solo come cattivo uso del libero arbitrio (questa, molto abbreviata, la concezione di Sant'Agostino del male come assenza di bene). Fa anche un parallelo con Voldemort, il cattivo di Harry Potter; non posso commentare perché i libri del maghetto non li ho letti. Ci tengo a precisare una cosa: che quando parlo del manicheismo nel fantasy, ovvero della netta contrapposizione buoni-cattivi in personaggi archetipali tagliati con l'accetta, non sto a fare distinzioni così sofisticate. Pertanto, se anche Duriez avesse tutte le ragioni, per me l'opera di Tolkien resta a tutti gli effetti pratici il classico fantasy manicheo. Ma non intendo fare discorsi tagliati con l'accetta a mia volta: libri in cui predomina la fiaba, il manicheismo, l'uso degli archetipi (Gandalf Vecchio Saggio, Aragorn Cavaliere Senza Macchia ecc...) anche se non sono il mio modello di fantasy possono senz'altro essere belli, così come reputo Il Signore degli Anelli un libro bellissimo. Peccato che Tolkien, che di suo ha scritto dei bei libri, abbia dato il via a degli imitatori (finti imitatori, perché ne prendono solo gli aspetti più esteriori) che hanno dato al fantasy quell'impronta di scontro buoni contro cattivi che tocca la maggioranza delle uscite moderne.
John Garth (scrittore e giornalista) ha parlato delle scene di guerra e della precisa corrispondenza di certe visioni (ad esempio i cadaveri nella Paludi Morte) con le atrocità della Prima Guerra Mondiale che Tolkien vide con i suoi occhi: tanto per non dimenticare che Tolkien non è sempre stato in università a fare il dotto professore, ma se l'è giocata nelle trincee come i suoi contemporanei, sebbene forse non troppo volentieri.
Gino Scatasta (professore universitario e traduttore dall'inglese) espone una tesi che reputo molto azzeccata. Non espongo tutto il ragionamento e la prospettiva, ma solo la conclusione, peraltro abbastanza chiara: Tolkien con tutto il suo conservatorismo è comunque figlio del suo tempo e moderno a tutti gli effetti, e la contrapposizione Luce-Ombra (Bene e Male) in lui è vista con il filtro del '900 (il "Secolo delle Idee Assassine," aggiungo io) e ne risulta una lotta dove il male va completamente eliminato dentro e fuori di sé, e con l'avversario non può esserci nessun compromesso. Personalmente ritengo questo un aspetto sgradevole di quel manicheismo tanto imperante nel fantasy.
Michael Drout (studioso di letteratura medievale) parla del senso di perdita con un riferimento alla sua esperienza personale: quando da bambino lesse il Silmarillion in un periodo molto triste per lui e la famiglia. Il Silmarillion è l'opera in cui Tolkien lascia da parte o minimizza i suoi discorsi sul lieto fine (concetto su cui dovrò tornare) per mostrare una serie di lutti e distruzioni senza rimedio. Esprime la consapevolezza che tutti gli uomini, e tutte le loro opere, presto o tardi, dovranno morire. Nel saggio di Drout esaminiamo come l'arte possa dare una bellezza anche al dolore, alla nostalgia e al senso di perdita. Questa è la trattazione che ho preferito nella raccolta.
3 commenti:
Grazie infinite, Bruno.
Comunque, il libro si può ordinare su http://www.ibs.it/code/9788897006176/zzz99-agnoloni-g/tolkien-la-luce-e.html o tramite il sito dell'editore Senzapatria (http://senzapatriaeditore.it/).
In alternativa, chi fosse interessato può scrivermi direttamente, per avere informazioni, a giovanniagnoloni@gmail.com
Sono contento se il libro è ora acquistabile. Ai tempi in cui ho scritto l'articolo avevo cercato un po' in giro ma non l'avevo trovato disponibile.
Sì, sono sempre cose un po' lente, Bruno, soprattutto per i piccoli editori. A presto!
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