Un po' di informazioni sull'andamento di questo blog. In verità sono informazioni piuttosto superflue, visto che l'argomento trattato è abbastanza minoritario, le mie opinioni a volte sono un pochino tignose ma non abbastanza sensazionalistiche (ci sono dei posticini dedicati, per questo) insomma non c'è nessun motivo per cui questo blog faccia un successone, e infatti non lo fa (e non capisco allora perché gli spammer vengano lo stesso qui a fare pubblicità alle loro schifezze).
Novembre 2009 sembra essere il mese record come impressioni: 2.646. Batte, di non molto, il mese di marzo. In effetti la statistica è stabilmente su "duemila e qualcosa" con un comprensibile calo nei mesi estivi. Sono andato su Google analytics per capire qualcosa di più.
Le visite ricorrenti, ovvero effettuate da utenti che conoscono il blog e lo bazzicano abbastanza spesso, sono un po' più di un quinto del totale (e quattro località danno quasi la metà delle visite, ricorrenti e non: Milano, Roma, Torino e Napoli - mentre dall'estero non ne arriva quasi nessuna). I quattro quinti delle impressioni pare non siano visite ricorrenti (ovvero di gente che conosce il blog). Si tratta di persone che sono guidate a queste pagine dai motori di ricerca, e infatti hanno un bounce rate molto elevato. Cos'è il bounce rate? La percentuale di visite che durano pochi secondi prima che l'utente se ne vada per visitare una pagina di un altro sito. A dire il vero questo indicatore è molto elevato anche per le visite degli utenti ricorrenti. Può darsi che ci siano degli affezionati che visitano abbastanza spesso il blog ma se non trovano niente di nuovo se ne vanno subito? Chi lo sa.
Tutti questi dati comunque hanno un'importanza relativa perché grazie ai feed RSS (o come si dice, perdonate la mia ignoranza estrema in campo informatico) possono esserci un numero imprecisato di fedeli lettori che sfuggono alle statistiche. Correggetemi se sbaglio.
Una curiosità però ce la togliamo: qual è la pagina più frequentata? E' questa: Come scrivere un romanzo fantasy di successo.
Evidentemente il quesito viene posto di frequente ai motori di ricerca, e così piovono visite sulla mia pagina che, se ricorderete, è una collezione di cliché da me tradotta in italiano (l'originale è in inglese). Cliché da evitare, beninteso, ma forse non tutti quelli che l'hanno letta hanno capito.
Se troverò qualche altra interessante statistica la riporterò, ma per adesso basta così. In effetti le questioni che dovrei trattare sono altre. Dopo due anni e mezzo abbondanti, cosa ne penso dei libri che ho letto di recente, ad esempio. A parte il semiserio "Premio Immaginario," quali libri ho trovato davvero belli; come sta il fantasy italiano, e così via. Spero di occuparmene nei prossimi giorni, per adesso vi auguro un buon 2010.
lunedì 28 dicembre 2009
domenica 20 dicembre 2009
Il Premio Immaginario 2009
Si avvicina la fine dell'anno e devo decidere se è possibile l'assegnazione del Premio Immaginario per il 2009. Come sapete, il Premio è riservato agli esordienti italiani che hanno pubblicato un fantasy per adulti in tempi recenti. Come si partecipa al premio? La partecipazione è spesso involontaria (anche se talvolta ho ricevuto inviti e qualche donazione di libri): infatti partecipano i libri che ho letto nell'anno in corso. L'assegnazione del premio è a mio insindacabile giudizio e, anche se produco delle ironiche opere d'arte (arte? scherzo...) per raffigurarlo, il premio è immaginario perché è del tutto immateriale. Il vincitore può in effetti immaginarsi qualsiasi cosa: ciò è molto conveniente per le mie finanze e assicura che il vincitore ottenga proprio ciò che vuole, anche se su un piano puramente immaginario. D'altra parte il blog si chiama Mondi Immaginari, giusto?
Abbiamo preparato come realizzazione del Premio Immaginario 2009 una testa di Goblin al tegame. A dire il vero si tratta di creatura non perfettamente identificata, e le diverse ferite inflitte con l'ascia non ci permettono un esame preciso. D'altra parte il popolo fatato in Padania è praticamente in via di estinzione ed è già stato difficile acchiapparne un esemplare quando abbiamo deciso di rinnovare questa tradizione gastronomica degli antichi Celti.Cosa ho letto di italiano quest'anno? Un Tiro Perfetto di Seymour Seamoore. Da notare che Seymour Seamoore è uno pseudonimo. Ma sorvoliamo su questi dettagli. Il libro ha parecchie buone idee, però è carente nella chiarezza e nella forma, e non sviluppa abbastanza le sue tematiche. Il Sentiero Oltre le Sfere di Alessandro Nardin è un libro strano, imperniato sulla necessità della ricerca, sulla brama di aver risposte ai propri interrogativi, e su un incastro di misteri da indagare. Un po' lezioso a tratti, ma una bella storia con dei bei personaggi. Ambientato nella Repubblica di Venezia, nel '500, è propriamente un romanzo fantastico, il che non gli impedisce di concorrere al Premio. Wunderkind di G.L. d'Andrea è un libro horror-fantasy con qualche debolezza di trama e formale, ma un'indubbia capacità di creare l'atmosfera giusta. L'elemento fantastico vi è abbastanza forte per considerarlo ammissibile al Premio, e l'autore è un esordiente, per quanto il suo sia stato un esordio di lusso: direttamente con Mondadori. Il Cavaliere Inesistente di Italo Calvino non può ovviamente concorrere per il premio immaginario. Non può nemmeno Pan di Francesco Dimitri, perché l'autore ha già pubblicato diversi libri. Tra parentesi: Pan avrebbe vinto a mani basse. Abbiamo poi Zeferina di Riccardo Coltri: ho letto la seconda versione, quella curata da Asengard, versione che sarebbe piuttosto differente dal primissimo esordio con altro editore. Pur sempre di esordio recente si tratta, anche se devo dire che sono stato un po' deluso dalla lettura, dopo tanto averne sentito parlare bene. Werewolf di Francesca Angelinelli non può partecipare perché l'autrice, già vincitrice della prima edizione del Premio, non è più esordiente (e questo ovviamente non è stato il suo libro d'esordio). Quanto a Caverne di Stefano Bianchi, si tratta di un esordio ben congegnato sia pur con qualche ingenuità. L'ambientazione è fantastica (pur partendo da una Francia molto reale e moderna), e prende personaggi da diverse epoche, perciò posso giudicarlo compatibile con i criteri del Premio Immaginario. Mi trovo un po' in difficoltà. Ho letto abbastanza nel 2009, ma diversi di questi libri non possono concorrere per un motivo o per l'altro. Fra i restanti non trovo purtroppo un vincitore evidente che spicca su tutti, perciò ho qualche dubbio nello sciogliere il dilemma. Un Tiro Perfetto andrebbe a mio parere completamente riscritto anche se ha degli spunti intelligenti. Non posso che escluderlo; e nonostante il gran lavoro di ricerca e qualche spunto che valeva la pena, non mi è piaciuto molto Zeferina. Wunderkind ha polarizzato le attenzioni nei commenti che ho visto in giro: qualcuno lo adora, altri ne dicono tutto il male possibile. Io lo giudico un libro leggibile e godibile, ma senza le qualità per spiccare particolarmente. Restano Caverne e Il Sentiero oltre le Sfere: preferisco lo stile (sia pur meno ricercato e colto) del primo, ma il più maturo e profondo è senz'altro il secondo, e mi ha lasciato qualcosa di più. Il vincitore, sia pur di misura, è Il Sentiero oltre le Sfere di Alessandro Nardin. Congratulazioni. Potete trovare qui un video di presentazione al libro di Alessandro Nardin.
martedì 15 dicembre 2009
Off Topic, filtri navigazione
Purtroppo non sono abbastanza "tecnologico" per capire esattamente i contenuti della proposta Maroni sulla navigazione Web, anche se in effetti quello che si può vedere in rete non è comunque molto chiaro: ad esempio gli articoli di Corriere e Repubblica.
Le misure invocate per agire contro chi commette apologia di reato e istigazione a delinquere in rete, sinceramente, mi sembrano un po' inutili. Nel senso che certi crimini sono già giudicati tali e sono già punibili, si tratta solo di reagire un po' più alla svelta ma sicuramente le possibilità giuridiche ci sono già. Visto che la Polizia Postale ha già fatto interventi senza grossi problemi contro il peer to peer e i siti pedofili, non capisco bene questa invocazione di maggiori poteri.
Quanto agli interventi contro le manifestazioni, intendo dire quelle in cui la gente scende in piazza fisicamente, anche qui ci sarebbe da chiarire, la polizia (da che mondo è mondo) carica serenamente di mazzate i manifestanti, non capisco proprio di quali ulteriori poteri abbia bisogno.
I cosiddetti filtri che sbucano fuori nel discorso di Maroni mi paiono invece molto più preoccupanti. Si intende rendere più difficoltosa la navigazione verso certi siti con contenuti "pericolosi". Insomma si tratta di rendere parti del web invisibili per evitare i contenuti violenti, secondo decisioni che non capisco bene chi dovrebbe prendere, e con strumenti normalmente in uso presso nazioni come l'Iran o la Cina "popolare".
Spero proprio che questa pericolosa stupidaggine rimanga senza seguito. Mi pare assolutamente un'idea fuori dal mondo, un tentativo di capitalizzare l'attacco contro il nostro amato Presidente del Consiglio (a posteriori comincio a pensare che gli è stato fatto un bel regalo) mettendo un'ipoteca sulla libertà dell'unico mezzo che nessuno per adesso può controllare o comprare. Che questa libertà sia usata anche male, come dimostrano certi usi delle pagine Facebook (usi impropri che vengono da tutte le parti politiche), non crea alcuna necessità di legislazione speciale. Se ogni tanto chi scrive fesserie venisse pescato, sarebbe già un monito sufficiente.
Speriamo che il ministro Maroni ci dorma sopra.
Le misure invocate per agire contro chi commette apologia di reato e istigazione a delinquere in rete, sinceramente, mi sembrano un po' inutili. Nel senso che certi crimini sono già giudicati tali e sono già punibili, si tratta solo di reagire un po' più alla svelta ma sicuramente le possibilità giuridiche ci sono già. Visto che la Polizia Postale ha già fatto interventi senza grossi problemi contro il peer to peer e i siti pedofili, non capisco bene questa invocazione di maggiori poteri.
Quanto agli interventi contro le manifestazioni, intendo dire quelle in cui la gente scende in piazza fisicamente, anche qui ci sarebbe da chiarire, la polizia (da che mondo è mondo) carica serenamente di mazzate i manifestanti, non capisco proprio di quali ulteriori poteri abbia bisogno.
I cosiddetti filtri che sbucano fuori nel discorso di Maroni mi paiono invece molto più preoccupanti. Si intende rendere più difficoltosa la navigazione verso certi siti con contenuti "pericolosi". Insomma si tratta di rendere parti del web invisibili per evitare i contenuti violenti, secondo decisioni che non capisco bene chi dovrebbe prendere, e con strumenti normalmente in uso presso nazioni come l'Iran o la Cina "popolare".
Spero proprio che questa pericolosa stupidaggine rimanga senza seguito. Mi pare assolutamente un'idea fuori dal mondo, un tentativo di capitalizzare l'attacco contro il nostro amato Presidente del Consiglio (a posteriori comincio a pensare che gli è stato fatto un bel regalo) mettendo un'ipoteca sulla libertà dell'unico mezzo che nessuno per adesso può controllare o comprare. Che questa libertà sia usata anche male, come dimostrano certi usi delle pagine Facebook (usi impropri che vengono da tutte le parti politiche), non crea alcuna necessità di legislazione speciale. Se ogni tanto chi scrive fesserie venisse pescato, sarebbe già un monito sufficiente.
Speriamo che il ministro Maroni ci dorma sopra.
Dateci altri Vichinghi!
Notizie interessanti. Mel Gibson dirigerà, a quanto pare, Leonardo di Caprio in un film di ambientazione storica incentrato sulla cultura dei Vichinghi. Bella notizia, dal momento che il genere mi attira assai: tra i miei film preferiti c'è infatti Il Tredicesimo Guerriero, con tutte le imperfezioni che gli si possano addebitare, e anche i vari Beowulf che si son visti in questi ultimi anni li ho trovati interessanti. Non mi dispiace Di Caprio, per quanto come eroi vichinghi (con elmo cornuto in testa e tutto quanto) avrei potuto immaginare al suo posto ben altri attori hollywoodiani, alcuni ahimé ormai troppo anziani per la parte. Mi preoccupa un po' lo stile di Gibson regista, preferisco ricordarmelo come grande attore a suo tempo in Braveheart. Ci promettono meraviglie, vediamo un po' cosa succederà.
Solo un pensierino...
Un film fantasy in atmosfera nordica sarebbe chiedere troppo? Senza fare un altro Signore degli Anelli, però...
Solo un pensierino...
Un film fantasy in atmosfera nordica sarebbe chiedere troppo? Senza fare un altro Signore degli Anelli, però...
domenica 6 dicembre 2009
Nello spazio profondo nessuno può sentirti gridare
Mi sono rivisto il vecchio mitico Alien, in versione DVD con tanto di riproposizione delle scene cancellate. Uno dei capolavori di Ridley Scott, aiutato dalle realizzazioni dell'artista svizzero Hans Giger, ha influenzato (e di parecchio) l'immaginario e il cinema, e la sua importanza non può ancora dirsi sbiadita per quanto si tratti ormai di un film piuttosto vecchio: è uscito nel 1979.
Non sto a riassumere la trama (immagino che la conoscano tutti). L'importanza di questo film sta, in buona parte, nell'aver creato una figura archetipale, un avversario ostile e terrorizzante, quasi impossibile da combattere e mostruoso nel suo utilizzare le vittime come strumento per la propria riproduzione. Il fatto che i personaggi del film fossero, per quanto traslati nel futuro, dei normali lavoratori alle prese con un incarico di routine (paragonabili all'equipaggio di una nave da carico) permette una maggiore immedesimazione da parte del pubblico.
Da Alien nasce anche la figura della "donna con le palle" che ha più coraggio degli uomini, usa le armi meglio, è più intelligente, eccetera. Sigourney Weaver riesce bene nel ruolo, a mio parere senza strafare come poi s'è visto nei decenni a seguire.
Il film in molti aspetti tradisce la sua età anche se in maniera non spiacevole (in genere). Certe lunghe sequenze di navigazione (conti alla rovescia per le operazioni, ecc...) ricordano un po' i primi tempi dell'esplorazione spaziale e anche, ovviamente, il film 2001 Odissea nello spazio. Si aggiungono ad altre sequenze (il risveglio dalla fase di ibernazione, per esempio) per creare dei tempi lunghi che aumentano la tensione. Gli effetti speciali sono generalmente accettabili anche se non sempre all'altezza di quello che si potrebbe fare oggi. Ai tempi in cui Alien è stato prodotto la tecnologia digitale non aveva soppiantato gli effetti creati a mano e c'è ancora il lavoro dell'italiano Carlo Rambaldi dietro molte meraviglie dei film di quest'epoca. La complicata bocca dell'alieno è opera sua.
Una parte del fascino di questa creatura è la (voluta) scarsa visibilità nel film. Addirittura direi che il DVD, con la sua migliore qualità, rovina un po' l'effetto che ebbi con la mia prima visione televisiva di tanti anni fa: proprio perché l'alieno diventa troppo visibile.
La scena in cui Ripley riesce a farlo fuoriuscire dallo shuttle in cui si è rifugiata dopo la distruzione della nave è a mio parere una delle peggio riuscite, perché fa vedere un brutto pupazzone di gomma, irrimediabilmente antropomorfo, rimbalzare contro le pareti dello shuttle cui è ancora legato. La creatura aliena veniva mossa da un attore particolarmente magro e alto proprio per non far pensare a una tuta con un manovratore umano all'interno: doveva essere qualcosa di scarsamente discernibile, in modo che il pubblico potesse proiettarvi le proprie paure.
Tradisce un po' l'epoca, ma è efficace, anche la presenza nel film di due tecnici della manutenzione che all'inizio della storia continuano a protestare per questioni di paga e lavoro. Oggi questo "proletariato dello spazio" probabilmente sarebbe sostituito da robot. O dai lavoratori del terzo millennio, che subiscono e non protestano. Abbastanza "anni settanta" anche la barba del comandante Dallas, e gli schermi dei computer dalla grafica terribilmente antiquata, il computer di bordo cui si accede da una stanza con tante lucine che si accendono e spengono di continuo, e cui vengono fatte domande stupide (questo tradisce anche il fatto che il pubblico non ne capisse niente, e forse neanche la produzione...). La scena in cui Dallas e altri sono rinchiusi in bozzoli, pronti per la metamorfosi dell'alieno, non è particolarmente ben riuscita ed è stata cancellata. Non sarebbe stata coerente con la presenza (nel successivo film della serie) di una "regina" che depone le uova.
Ma sono aspetti secondari. Alien, anche se per alcuni aspetti visivi sta invecchiando, rimane una pietra miliare sia per l'horror che per la fantascienza. I seguiti non sono allo stesso livello (il secondo della serie, Aliens scontro finale, è comunque un film d'azione molto bello) ma ci vorrà, credo, molta fatica e molta fantasia per produrre un mostro più spaventoso di Alien.
Non sto a riassumere la trama (immagino che la conoscano tutti). L'importanza di questo film sta, in buona parte, nell'aver creato una figura archetipale, un avversario ostile e terrorizzante, quasi impossibile da combattere e mostruoso nel suo utilizzare le vittime come strumento per la propria riproduzione. Il fatto che i personaggi del film fossero, per quanto traslati nel futuro, dei normali lavoratori alle prese con un incarico di routine (paragonabili all'equipaggio di una nave da carico) permette una maggiore immedesimazione da parte del pubblico.
Da Alien nasce anche la figura della "donna con le palle" che ha più coraggio degli uomini, usa le armi meglio, è più intelligente, eccetera. Sigourney Weaver riesce bene nel ruolo, a mio parere senza strafare come poi s'è visto nei decenni a seguire.
Il film in molti aspetti tradisce la sua età anche se in maniera non spiacevole (in genere). Certe lunghe sequenze di navigazione (conti alla rovescia per le operazioni, ecc...) ricordano un po' i primi tempi dell'esplorazione spaziale e anche, ovviamente, il film 2001 Odissea nello spazio. Si aggiungono ad altre sequenze (il risveglio dalla fase di ibernazione, per esempio) per creare dei tempi lunghi che aumentano la tensione. Gli effetti speciali sono generalmente accettabili anche se non sempre all'altezza di quello che si potrebbe fare oggi. Ai tempi in cui Alien è stato prodotto la tecnologia digitale non aveva soppiantato gli effetti creati a mano e c'è ancora il lavoro dell'italiano Carlo Rambaldi dietro molte meraviglie dei film di quest'epoca. La complicata bocca dell'alieno è opera sua.
Una parte del fascino di questa creatura è la (voluta) scarsa visibilità nel film. Addirittura direi che il DVD, con la sua migliore qualità, rovina un po' l'effetto che ebbi con la mia prima visione televisiva di tanti anni fa: proprio perché l'alieno diventa troppo visibile.
La scena in cui Ripley riesce a farlo fuoriuscire dallo shuttle in cui si è rifugiata dopo la distruzione della nave è a mio parere una delle peggio riuscite, perché fa vedere un brutto pupazzone di gomma, irrimediabilmente antropomorfo, rimbalzare contro le pareti dello shuttle cui è ancora legato. La creatura aliena veniva mossa da un attore particolarmente magro e alto proprio per non far pensare a una tuta con un manovratore umano all'interno: doveva essere qualcosa di scarsamente discernibile, in modo che il pubblico potesse proiettarvi le proprie paure.
Tradisce un po' l'epoca, ma è efficace, anche la presenza nel film di due tecnici della manutenzione che all'inizio della storia continuano a protestare per questioni di paga e lavoro. Oggi questo "proletariato dello spazio" probabilmente sarebbe sostituito da robot. O dai lavoratori del terzo millennio, che subiscono e non protestano. Abbastanza "anni settanta" anche la barba del comandante Dallas, e gli schermi dei computer dalla grafica terribilmente antiquata, il computer di bordo cui si accede da una stanza con tante lucine che si accendono e spengono di continuo, e cui vengono fatte domande stupide (questo tradisce anche il fatto che il pubblico non ne capisse niente, e forse neanche la produzione...). La scena in cui Dallas e altri sono rinchiusi in bozzoli, pronti per la metamorfosi dell'alieno, non è particolarmente ben riuscita ed è stata cancellata. Non sarebbe stata coerente con la presenza (nel successivo film della serie) di una "regina" che depone le uova.
Ma sono aspetti secondari. Alien, anche se per alcuni aspetti visivi sta invecchiando, rimane una pietra miliare sia per l'horror che per la fantascienza. I seguiti non sono allo stesso livello (il secondo della serie, Aliens scontro finale, è comunque un film d'azione molto bello) ma ci vorrà, credo, molta fatica e molta fantasia per produrre un mostro più spaventoso di Alien.
mercoledì 2 dicembre 2009
E due
Due cosa? Due i concorsi in cui riesco a piazzarmi ma non a vincere. In realtà ce n'è stato anche uno in cui non ho ottenuto alcun risultato. Sto parlando del mio cavallo da corsa preferito, dal titolo provvisorio Magia e Sangue, titolo che è già stato classificato e certificato come orripilante dal titolare di una casa editrice.
Il primo concorso dove sono arrivato finalista è stato quello della Delos, il secondo quello della Montag di cui sono stati da poco comunicati i vincitori. Al primo posto si piazza Francesca Angelinelli, a cui rivolgo le mie rosicanti :) congratulazioni.
Il primo concorso dove sono arrivato finalista è stato quello della Delos, il secondo quello della Montag di cui sono stati da poco comunicati i vincitori. Al primo posto si piazza Francesca Angelinelli, a cui rivolgo le mie rosicanti :) congratulazioni.
sabato 28 novembre 2009
Lanfeust, seconda parte
Le avventure di Lanfeust di Troy, il nostro fabbro diventato signore della magia, continuano nel secondo volume della raccolta. La storia si ravviva con degli scossoni violenti: Thanos, rivale acerrimo di Lanfeust, si scatena e conquista Eckmul, la città dei savi, ponendo fine al loro potere (per sempre?). Deve affrontare però una resistenza accanita, tra cui milita una misteriosa eroina capace di farsi beffe dei suoi soldati.
La comitiva dei nostri eroi (Lanfeust in primis) continua la ricerca della fonte assoluta da cui proviene tutto il potenziale magico del mondo, un viaggio interminabile che segue il ritmo delle trasformazioni e metamorfosi di un misterioso animale guida; e infine anche l'amore di C'ian per Lanfeust sembra dover essere messo in dubbio. Insomma una serie che per via della sua grande lunghezza ha bisogno di riprendere vitalità con qualche trovata spettacolare in più.
Fantasia a briglia sciolta, accurati disegni di architetture improbabili e creature impossibili, avventure mozzafiato che spaziano per le terre più diverse, con la curiosità dell'esplorazione e qualche tocco di comicità. Un fumetto "low fantasy," diciamo, forse avrei piacere di vedere qualche soggetto più serio svolto con la stessa qualità grafica e cura dei particolari, tuttavia con questo Lanfeust di Troy mi sono divertito molto.
Qui potete trovare il portale dedicato al nostro eroe, con informazioni sui fumetti, sul videogame, sul gioco di carte collezionabili e perfino sul Gioco di Ruolo di Lanfeust, e un sacco di altri utili o inutili gadgets dedicati al bravo eroe di carta stampata. Attenzione: il sito è in francese.
lunedì 23 novembre 2009
Enorme e prevedibile successo per New Moon
Prevedibile, sì, anche se forse si superano anche le più ottimistiche previsioni. Per quanto riguarda gli USA, il paese in cui si fanno tutte le valutazioni che contano, il seguito di Twilight ha agguantato il terzo miglior weekend d'apertura nella storia, per record d'incassi.
Del resto guardando la folla di ragazzine agitate e/o starnazzanti che si erano messe in fila davanti al cinema alle due del pomeriggio il giorno della prima non avevo molti dubbi. Una cosa mi rovinava un po' la pausa pranzo vedendo quella fila, il fatto che il pubblico femminile detti sempre di più i gusti delle produzioni di grande richiamo. Temo molto per le riproposizioni cinematografiche dei vecchi gloriosi autori fantasy. Ho paura che, se il buon Conan (nella nuova versione) farà fiasco, il fantastico viri verso il fumettone rosa (e quanto al film su Elric purtroppo sembra che sia svanito nel nulla ancora una volta).
Del resto se gli uomini non leggono libri e non vanno al cinema, è normale che sia così... ma qualcuno mi spiega cosa stanno facendo? Tutti a giocare con la Playstation?
Del resto guardando la folla di ragazzine agitate e/o starnazzanti che si erano messe in fila davanti al cinema alle due del pomeriggio il giorno della prima non avevo molti dubbi. Una cosa mi rovinava un po' la pausa pranzo vedendo quella fila, il fatto che il pubblico femminile detti sempre di più i gusti delle produzioni di grande richiamo. Temo molto per le riproposizioni cinematografiche dei vecchi gloriosi autori fantasy. Ho paura che, se il buon Conan (nella nuova versione) farà fiasco, il fantastico viri verso il fumettone rosa (e quanto al film su Elric purtroppo sembra che sia svanito nel nulla ancora una volta).
Del resto se gli uomini non leggono libri e non vanno al cinema, è normale che sia così... ma qualcuno mi spiega cosa stanno facendo? Tutti a giocare con la Playstation?
sabato 21 novembre 2009
Tempo di streghe?
A quanto pare la nuova urban fantasy potrebbe presto occuparsi di streghe oltre che di vampiri. A detta di Gianfranco Viviani (l'intervista è uscita da poco) le storie di streghe stanno cogliendo sempre più l'interesse degli editori.
Le streghe sono in effetti personaggi affascinanti (e appaiono nei miei sforzi di scrivere qualcosa, tra l'altro). Mentre un mago, al maschile, fa pensare a un noioso vecchio saggio che conserva la tradizione dell'ordine costituito, e in certi casi è un po' l'equivalente dello scienziato, la strega evoca (giustamente o no) una carica di imprevedibilità, di sovversione e di ribellione.
In effetti per strega si possono intendere vari tipi di personaggio. Per gli inquisitori, una seguace di Satana. Ma anche la conservatrice di una religiosità pagana dura a morire nel mondo dominato dal cristianesimo. Streghe sono state chiamate anche le donne provenienti da mondi esotici e lontani, portatrici di terribili poteri, come Medea, sposa di Giasone (e qui ci rechiamo nel mondo ellenistico più che in quello medievale). Nella realtà spesso capitava che le streghe fossero delle donne che usavano rimedi popolari magari intrisi di superstizione: e magari perseguitate per antipatie personali, per l'ignoranza di coloro che si ritenevano vittime di malocchio o maledizioni, ecc...
Mentre lo stregone o mago (maschio) è visto spesso come un uomo saggio (un certo tipo di ricerca magica è esistito durante il medioevo senza subire persecuzioni: ad esempio quella degli alchimisti) la strega (femmina) è quasi sempre giudicata negativamente. Intrigante, malvagia, sovversiva e omicida. Giudizi e situazioni dettate probabilmente dall'atteggiamento culturale che all'epoca si teneva verso le donne. Nello stesso periodo in cui l'inquisizione massacrava streghe a migliaia il famoso mago Cornelio Agrippa si poteva permettere di scrivere trattati sulla magia e di criticare l'atteggiamento misogino dell'inquisizione.
C'è da sperare ovviamente che il tema abbia nell'editoria di domani un trattamento migliore di quello che è stato con le storie di vampiri. E che non si abbia l'invasione delle scrittrici-streghette di quattordici anni, o altre simili mode immonde.
domenica 15 novembre 2009
Esordi, conferme e lupi mannari
La mia recensione di Caverne è comparsa su Fantasy Magazine e potete leggerla qui.
E' un libro di esordio piuttosto semplice, evita di impantanarsi nell'eccessiva complessità; ha qualche elemento stereotipato o qualche ingenuità, tuttavia parte da un'idea stimolante che da sola crea la voglia di approfondire. Rinnovo quindi i miei complimenti all'autore Stefano Bianchi con cui condivisi il corso di scrittura creativa ormai un anno e mezzo fa (come passa il tempo!).
Ho letto anche Werewolf di Francesca Angelinelli (bella la copertina di Francesca Resta). Mi ero fatto un po' l'abitudine di non leggere un secondo libro degli esordienti italiani, preferendo magari passare ogni volta a un autore nuovo: ho fatto un'eccezione in questo caso ma devo dire che è stata una lettura un po' inutile, e lo prevedevo.
Perché? Perché qui l'autrice ha scritto una storia molto convenzionale introducendosi in un filone che va alla grande: mossa di carriera del tutto legittima visto che per essere pubblicati bisogna scrivere quello che le case editrici vogliono pubblicare, ma che sospetto non essere delle più ispirate. Passiamo al motivo, con l'avvertenza di saltare al prossimo paragrafo se non volete che vi venga svelata la trama. Tra situazioni già viste e parecchio canoniche (un po' da storia dell'orrore e un po' da romanzo rosa) con un bello e impossibile che si è recluso nel maniero lugubre che cade a pezzi, e una protagonista che a ogni emozione si sente arrivare un colpo al cuore, non c'è praticamente nessun momento della storia che non sia previsto e scontato. Lui è un lupo mannaro fin dal cognome e quando finalmente si vede la trasformazione non c'è ovviamente una gran sorpresa. Quanto a lei, mentre non avevo apprezzato certi aspetti della protagonista ammazzasette di Chariza. Il soffio del Vento eravamo comunque di fronte a un personaggio vivo e vibrante, con Kateleen in Werewolf stavolta abbiamo la classica donna fragile o fragilissima, anche se sa dire le cose giuste al momento giusto e alla fine tutto finisce in gloria.
In definitiva rispetto l'esigenza di lavorare per la pubblicazione ma non posso che notare, in questa storia, l'adesione ai canoni di genere senza la presenza di una ispirazione o rivisitazione personale. Mi è parso un lavoro professionale, senza magari qualche strafalcione che c'era stato nel libro di esordio, ma temo che sia stato scritto "per dovere," con una certa freddezza.
mercoledì 11 novembre 2009
Lupi e felini mannari
Dal momento che le mie attuali letture vertono sul tema del lupo mannaro, mi sono interessato anche ai film in tema di trasformazioni animalesche e "dannate". Ce n'è uno sproposito, ma qui ho deciso di focalizzarmi su tre vecchie (o vecchissime) glorie del genere.
Un film che molti avranno visto: Un Lupo Mannaro Americano a Londra. Ci ho messo una vita, ammetto, a vedermelo tutto, e così la visione recente che ne ho avuto è l'unica completa. Devo dire che questo film, che aveva effetti speciali eccellenti per l'epoca in cui era stato girato (1981), oggi ha proprio lì un punto debole vistoso. E' chiaro: dopo un quarto di secolo (ebbene sì, ne è passato di tempo) ciò che una volta era un effetto ben riuscito ora sembra un tentativo patetico.
La storia del lupo mannaro è virata in chiave moderna, e il contagio del protagonista americano avviene in Europa durante una vacanza. Il regista John Landis mescola senza remore i momenti drammatici con quelli decisamente comici (e con una certa quantità di scene di nudo e di sesso): l'effetto mi è sembrato strano e anche qua e là sgradevole, sebbene in altre occasioni abbia apprezzato parecchio la mano di Landis (che ha avuto all'epoca parecchio successo anche se adesso sembra scivolato un po' dietro le quinte). Anche il finale sembra piazzato lì tanto per troncare in qualche modo la storia: non motivato da uno sviluppo del personaggio o della trama, e in qualche modo inaspettato (almeno in quel modo e in quel momento). Non nego comunque che ci siano un certo numero di scene divertenti, soprattutto quelle in cui il protagonista si confronta con il fantasma del suo amico che viene ammazzato dal lupo mannaro all'inizio del film. Se pensate che io mi sbagli a sminuire un film che ha riscosso un indubbio successo provate a vederlo o rivederlo oggi... ma attenzione: probabilmente alla gioventù dark e "gotica" che si è sciroppata i film e i libri di vampiri che circolano ora, questo lupo yankee non può piacere.
E ai gatti nessuno ci pensa? Intendo dire ai gatti di grandi dimensioni. Anche loro hanno avuto il loro momento cinematografico, e la loro razza dannata di mutantropi. Un grande film di felini mannari è l'antichissimo Cat People del 1942 (tradotto come Il Bacio della Pantera). La dannazione qui colpisce una bella donna, Irena, interpretata da Simone Simon (carismatica, e per i suoi tempi scandalosa, attrice e modella francese, era in realtà mezza italiana). Su Irena pende una maledizione che la vuole discendente di una maledetta razza di satanisti slavi: si trasformerà in una pantera se lascerà che la passione o la rabbia la travolga. Cercherà di non consumare il matrimonio, ma sarà travolta dalla gelosia quando un'altra donna si accosterà al marito. Doveva essere un film di serie B ma fu un successo. Ben riuscite le scene evocative dove l'elemento terrorizzante non viene mai visto direttamente, forte la tematica per l'epoca, ma restando nei limiti, brava la protagonista che allo stesso tempo suscita compassione e terrore.
Questo film ha avuto un remake nel 1982 ad opera di Paul Schrader (famoso sia come regista che come sceneggiatore). Nel ruolo di Irena abbiamo Nastassja Kinski, un'attrice dalla forte carica sensuale che si era trovata in ruoli scabrosi fin dalla più tenera età, creandosi una fama equivoca. A farle da contraltare abbiamo un altro appartenente alla razza del popolo degli uomini-pantera, suo fratello Paul (interpretato da un attore formidabile, Malcolm McDowell, che qui però appare piuttosto invecchiato).
Alla maledizione che impedisce la passione ai due (pena la trasformazione in pantera: e per ridiventare umani devono uccidere) si unisce la tematica incestuosa. Possono avere rapporti fra loro senza trasformarsi, infatti, ed è ciò che Paul desidera ma Irena non vuole. La ragazza cerca di fuggire l'interesse del fratello e di mantenere una relazione platonica con Oliver (il nome è quello del marito nel primo film). Ovviamente finirà male, ma il finale non lo rivelo.
Tensione e terrore che si svela a poco a poco, malinconia di un destino maledetto e inevitabile, passione repressa che vuole sfogo. Questi elementi concorrono a creare un film di grandissima potenza, con l'aiuto della colonna sonora di Giorgio Moroder; uno dei brani (intitolato appunto Cat People) è interpretato da David Bowie e per quanto le parole in parte non combacino con la storia del film, la canzone ha certamente contribuito al suo successo. Decisamente un remake meglio dell'originale (ma del resto erano passati 40 anni). Il Cat People dell'82 è il migliore film dei tre di cui ho parlato qui, e supera di gran lunga tutti i film su lupi, felini o altre bestie mannare che abbia mai visto.
sabato 7 novembre 2009
Russian Campaign
Di solito per giochi da tavolo intendo cosine semplici, fatte per durare possibilmente poche ore e divertire con intelligenza. Ma, per metterla sul melodrammatico, le mie radici sono assai più profonde e vengono da molto lontano: ho vissuto l'epopea delle simulazioni militari complicate (e piuttosto pesanti) che precedettero l'era del computer. I giochi di guerra detti anche boardgames o wargames ebbero un boom che durò una quindicina d'anni, a cavallo degli anni '70 (del secolo scorso) fino all'arrivo dei personal computer che prima trasferirono i giochi di strategia a un formato elettronico e poi li ammazzarono virando verso gli sparatutto, le avventure in prima persona, i giochi multiplayer e via dicendo (ovviamente i giochi di strategia militare rimangono e ne vengono prodotti anche di nuovi, ma sono decisamente in secondo piano).
La simulazione militare è stata usata in varie epoche dai veri eserciti per ipotizzare gli esiti dei conflitti: ricordiamo ad esempio i Kriegspiel prussiani dell'800. I giochi di guerra ricreativi nati negli anni '50 presentarono la novità delle pedine rappresentate non più con miniature ma con umili quadratini di cartoncino, e la mappa generalmente suddivisa in esagoni per non dover gestire il movimento delle truppe con sistemi noiosi tipo il righello. La trovata fu della ormai scomparsa Avalon Hill (una ditta americana produttrice di giochi). I complicati regolamenti rendevano questo hobby abbastanza elitario eppure prima dell'avvento del pc si contavano numerosi praticanti, mentre oggi questo tipo di giochi ha vissuto un lungo declino e gode di un seguito piuttosto modesto (e con pochi giovani fra le proprie file).
Mi è capitato di rigiocare un vecchio classico, The Russian Campaign (prodotto dalla summenzionata Avalon Hill). Fu un gioco di successo anche perché pone una sfida appassionante ricostruendo il mostruoso conflitto del fronte orientale tra la Germania nazista e l'Unione Sovietica: il tedesco deve cercare di eliminare il gigante russo prima che la sua industria si mobiliti (non senza un cospicuo aiuto inglese e americano) e crei la spaventosa macchina bellica che (storicamente) ha travolto le speranze di Hitler. E' una corsa contro il tempo per il giocatore tedesco (mentre quello russo al contrario spera che i tempi grami passino, e arrivino i rinforzi che gli permetteranno il contrattacco). L'arrivo dell'inverno termina l'offensiva del 1941, la marea di rinforzi russi rende il nuovo attacco del '42 più difficile, poi al giocatore tedesco (se non ha colto il successo) tocca stare sulla difensiva, alle prese con una superiorità militare nemica terrificante. Il russo ovviamente deve farcela a passare il primo periodo di guerra senza essere sconfitto e senza cedere troppo territorio, e ricostruire il proprio esercito per passare alla controffensiva.
Russian Campaign è un wargame piuttosto antico, ancora dominato da una delle regole più nefaste in voga nel primo periodo: la ZOC ovvero Zone Of Control (se proprio ve lo devo tradurre in italiano: zona di controllo). Quando le unità a spasso per la mappa esagonata arrivano adiacenti al nemico si devono fermare, e il contatto deve per forza portare al combattimento, con calcolo dei fattori di forza e lancio del dado su una tabella. I risultati portano all'eliminazione di unità militari, a ritirate eccetera.
Insomma un gioco piuttosto scacchistico con una certa quantità di calcoli da fare a mente. Nella immagine che ho preso dal sito Boardgamegeek.com possiamo vedere che un abile giocatore tedesco ha conquistato la città di Leningrado.
Le unità russe (pedine marroni, che vediamo al contrario) hanno in buona parte i numeri 4-3 stampati e un simbolo rettangolare con le diagonali. Cosa vuol dire? Il simbolo rettangolare è il simbolo NATO che identifica le unità di fanteria (ha minori possibilità di movimento rispetto ai mezzi motorizzati, in questo gioco) mentre il 4 è la forza di combattimento e il 3 i "punti di movimento" che l'unità può spendere per spostarsi. Nel turno di gioco, che rappresenta un bimestre, può quindi muovere di tre esagoni salvo incontrare del territorio difficile che obbliga a fermarsi appena vi si entra (come parecchi degli esagoni di Leningrado e dintorni). Nella mappa potete vedere anche le linee scure della ferrovia: un sistema molto conveniente per spostamenti illimitati, ma non arriva fino alle linee nemiche! Per quanto riguarda il fattore di combattimento: lo si somma con quello delle altre unità all'attacco e si compara con il difensore per ottenere un rapporto (bisogna saper fare le divisioni, gente!). In Russian Campaign si possono avere sorprese molto brutte anche se si è in superiorità di 2 a 1, e comunque è facile che anche con enorme superiorità si subiscano delle perdite.
Tra le unità verdoline tedesche potete intravvedere unità con fattori di combattimento di 6 e 8, e 7 punti movimento. Questi sono i corpi corazzati, i famosi panzer: picchiano forte e muovono rapidi, e per giunta nei turni in cui il tempo è bello possono effettuare un secondo movimento di 4 punti per sfruttare gli sfondamenti che hanno procurato nel fronte nemico. La fanteria tedesca (e quella finlandese che vedete sulla sinistra, di colore chiaro) invece non è qualitativamente molto diversa da quella russa.
La versione che ho sperimentato di recente è quella ripubblicata dalla L2 Design Group con qualche variante rispetto al vecchio gioco che avevo giocato decine di volte da ragazzo. Eravamo in quattro giocatori di cui 3 per i tre gruppi di armate tedeschi (nord, centro e sud) e uno che muoveva tutti i russi. Com'è andata? Be', non abbiamo finito la partita. Non sono certo giochi che si risolvono facilmente in una serata e infatti arrivati al primo inverno ci siamo arenati e siamo andati a dormire. Eravamo già sconfitti, nel fronte meridionale non avevamo mosso praticamente un passo dalla frontiera tra URSS e Romania, che è il punto di partenza. Non sono un asso in questo tipo di giochi, che ormai affronto sporadicamente: ma devo dire che la mia parte stavolta l'ho fatta, portando il gruppo di armate nord fino alle porte di Leningrado.
La simulazione militare è stata usata in varie epoche dai veri eserciti per ipotizzare gli esiti dei conflitti: ricordiamo ad esempio i Kriegspiel prussiani dell'800. I giochi di guerra ricreativi nati negli anni '50 presentarono la novità delle pedine rappresentate non più con miniature ma con umili quadratini di cartoncino, e la mappa generalmente suddivisa in esagoni per non dover gestire il movimento delle truppe con sistemi noiosi tipo il righello. La trovata fu della ormai scomparsa Avalon Hill (una ditta americana produttrice di giochi). I complicati regolamenti rendevano questo hobby abbastanza elitario eppure prima dell'avvento del pc si contavano numerosi praticanti, mentre oggi questo tipo di giochi ha vissuto un lungo declino e gode di un seguito piuttosto modesto (e con pochi giovani fra le proprie file).
Mi è capitato di rigiocare un vecchio classico, The Russian Campaign (prodotto dalla summenzionata Avalon Hill). Fu un gioco di successo anche perché pone una sfida appassionante ricostruendo il mostruoso conflitto del fronte orientale tra la Germania nazista e l'Unione Sovietica: il tedesco deve cercare di eliminare il gigante russo prima che la sua industria si mobiliti (non senza un cospicuo aiuto inglese e americano) e crei la spaventosa macchina bellica che (storicamente) ha travolto le speranze di Hitler. E' una corsa contro il tempo per il giocatore tedesco (mentre quello russo al contrario spera che i tempi grami passino, e arrivino i rinforzi che gli permetteranno il contrattacco). L'arrivo dell'inverno termina l'offensiva del 1941, la marea di rinforzi russi rende il nuovo attacco del '42 più difficile, poi al giocatore tedesco (se non ha colto il successo) tocca stare sulla difensiva, alle prese con una superiorità militare nemica terrificante. Il russo ovviamente deve farcela a passare il primo periodo di guerra senza essere sconfitto e senza cedere troppo territorio, e ricostruire il proprio esercito per passare alla controffensiva.
Russian Campaign è un wargame piuttosto antico, ancora dominato da una delle regole più nefaste in voga nel primo periodo: la ZOC ovvero Zone Of Control (se proprio ve lo devo tradurre in italiano: zona di controllo). Quando le unità a spasso per la mappa esagonata arrivano adiacenti al nemico si devono fermare, e il contatto deve per forza portare al combattimento, con calcolo dei fattori di forza e lancio del dado su una tabella. I risultati portano all'eliminazione di unità militari, a ritirate eccetera.
Insomma un gioco piuttosto scacchistico con una certa quantità di calcoli da fare a mente. Nella immagine che ho preso dal sito Boardgamegeek.com possiamo vedere che un abile giocatore tedesco ha conquistato la città di Leningrado.
Le unità russe (pedine marroni, che vediamo al contrario) hanno in buona parte i numeri 4-3 stampati e un simbolo rettangolare con le diagonali. Cosa vuol dire? Il simbolo rettangolare è il simbolo NATO che identifica le unità di fanteria (ha minori possibilità di movimento rispetto ai mezzi motorizzati, in questo gioco) mentre il 4 è la forza di combattimento e il 3 i "punti di movimento" che l'unità può spendere per spostarsi. Nel turno di gioco, che rappresenta un bimestre, può quindi muovere di tre esagoni salvo incontrare del territorio difficile che obbliga a fermarsi appena vi si entra (come parecchi degli esagoni di Leningrado e dintorni). Nella mappa potete vedere anche le linee scure della ferrovia: un sistema molto conveniente per spostamenti illimitati, ma non arriva fino alle linee nemiche! Per quanto riguarda il fattore di combattimento: lo si somma con quello delle altre unità all'attacco e si compara con il difensore per ottenere un rapporto (bisogna saper fare le divisioni, gente!). In Russian Campaign si possono avere sorprese molto brutte anche se si è in superiorità di 2 a 1, e comunque è facile che anche con enorme superiorità si subiscano delle perdite.
Tra le unità verdoline tedesche potete intravvedere unità con fattori di combattimento di 6 e 8, e 7 punti movimento. Questi sono i corpi corazzati, i famosi panzer: picchiano forte e muovono rapidi, e per giunta nei turni in cui il tempo è bello possono effettuare un secondo movimento di 4 punti per sfruttare gli sfondamenti che hanno procurato nel fronte nemico. La fanteria tedesca (e quella finlandese che vedete sulla sinistra, di colore chiaro) invece non è qualitativamente molto diversa da quella russa.
La versione che ho sperimentato di recente è quella ripubblicata dalla L2 Design Group con qualche variante rispetto al vecchio gioco che avevo giocato decine di volte da ragazzo. Eravamo in quattro giocatori di cui 3 per i tre gruppi di armate tedeschi (nord, centro e sud) e uno che muoveva tutti i russi. Com'è andata? Be', non abbiamo finito la partita. Non sono certo giochi che si risolvono facilmente in una serata e infatti arrivati al primo inverno ci siamo arenati e siamo andati a dormire. Eravamo già sconfitti, nel fronte meridionale non avevamo mosso praticamente un passo dalla frontiera tra URSS e Romania, che è il punto di partenza. Non sono un asso in questo tipo di giochi, che ormai affronto sporadicamente: ma devo dire che la mia parte stavolta l'ho fatta, portando il gruppo di armate nord fino alle porte di Leningrado.
domenica 1 novembre 2009
Watchmen, il fumetto
Il film questa volta mi ha convinto a risalire alla fonte, mentre spesso avviene il contrario: per fonte intendo ovviamente il fumetto creato da Alan Moore. Moore è uno strano personaggio con una gran barba e una zazzera ancor più imponente, che oltre a Watchmen ha creato altri validi lavori come, per citarne uno recente e famoso, V per Vendetta. La storia con la sua complessità è tutto in Moore
e del resto il tratto di questo crepuscolo dei supereroi non si segnala, a mio parere, per un tratto molto accattivante: del resto vista la dimensione dell'opera non sarebbe stato molto facile. Diciamo che il fumetto ha un disegno onesto, abbastanza realistico, né meglio né peggio dei fumetti bonelliani che sopravvivono nel nostro mercato. Non è comunque un fumetto come tanti, visto che ci sono veri e propri inserti scritti che spiegano molto sull'ambientazione e sui personaggi, e anche le vignette stesse sono spesso verbose, complesse discussioni, con parecchio testo. Una serie divertente ma anche decisamente intellettuale e complessa, molto al di là delle tendenze attuali dei supereroi americani.
Perciò per me vanno abbastanza in secondo piano Dave Gibbon e John Higgins, rispettivamente china e colori di quest'opera. Quanto alla fedeltà del film, a parte alcune trame collaterali che sono andare perse (meno di quanto mi immaginavo, fra l'altro) e qualche differenza non sostanziale verso il finale, è incredibile come spirito e sostanza del fumetto siano stati rispettati nella pellicola. Notevole anche il realismo con cui i giustizieri in maschera sono trattati, come interagiscono con il vivere quotidiano e la società. E' la prima volta in cui i supereroi non mi sembrano una sciocchezza ridicola da accettare a forza per godermi una storia magari semplicistica, ma diventano uomini in carne ed ossa inseriti con realismo nel contesto di una trama. Anche nell'ultimo Batman il maggior realismo si raggiungeva facendo assumere al supereroe un ruolo da comprimario, qui invece sebbene nessuno sia veramente impressionante come presenza (eccetto il Dr Manhattan, che è l'unico ad avere veramente dei poteri speciali), la storia verte sempre su di essi.
Finalmente posso smettere di chiedermi perché quelli che hanno letto Watchmen sono così presi dall'eccezionalità di questo fumetto. Adesso lo so anche io e concordo: è davvero qualcosa di speciale. Leggetevelo.
martedì 27 ottobre 2009
Zeferina
Se volete la mia opinione sul Fantasy Mediterraneo la trovate in questo vecchio post. Per riassumerla in breve, non c'è motivo per cui elementi di storia e cultura italica o mediterranea non debbano farsi sentire nel fantasy di produzione nostrana, e questa è una banalità perché gli stranieri usano già atmosfere e situazioni di casa nostra (dall'antichità al rinascimento ecc...) senza ovviamente doverci chiedere il permesso.
Il folklore italiano mi sembra peraltro troppo casareccio e modesto per ambientarvi storie stile Conan il Barbaro, la nostra è la terra della civiltà e se uno ha bisogno di feroci guerrieri che mozzano teste e firmano facendo una X, si troverà sicuramente meglio con i miti germanici, vichinghi, e via dicendo.
Insomma vi invito a leggere quel post se non lo avete fatto. Ok? Tra l'altro intuirete perché non mi è particolarmente piaciuto Zeferina, seconda opera pubblicata di Riccardo Coltri. Questo libro si è voluto presentare come "il Fantasy del Regno d'Italia" e nella prima edizione aveva tanto di bandiera sabauda in copertina: ero molto incuriosito e dopo averlo letto devo dire che lo sforzo di ricerca sicuramente è encomiabile, sebbene non mi sia chiaro perché tantissimo del materiale è poi in verità di provenienza direttamente o indirettamente germanica (sia perché la storia ci porta in una terra di confine, sia perché il folklore dei Cimbri influenza il libro, gente che vive sicuramente in Italia da un pezzo ma che ha una chiara origine d'oltralpe). Tuttavia il risultato finale non mi ha entusiasmato e un po' me lo aspettavo, vista la difficoltà di creare toni epici con il nostro folklore di fronte all'ingombrante presenza della nostra storia.
Ad ogni modo ritengo che l'ambientazione (e qualsiasi discorso culturale sottostante) sia necessariamente funzionale alla qualità narrativa, perciò anziché perdermi in diatribe sul Fantasy Mediterraneo cercherò di dare una valutazione sul libro.
La storia di Zeferina parte dalla caccia che tutte le genti fatate stanno conducendo per impadronirsi del suo bambino, un esserino apparentemente deforme, probabilmente fatato anch'esso, che sarebbe la realizzazione di antichissime profezie.
Zeferina è una trovatella, allevata da una strega e strega dilettante lei stessa. Si batte ostinatamente e con coraggio per non cedere la sua creatura e coltiva la speranza di trovare lidi più accoglienti per condurre una vita meno stentata.
Attraverso la storia di un altro personaggio, Nero, seguiamo le azioni di tribù, regni, sciamani e fazioni varie che stanno per sfidarsi in una specie di Ragnarok in versione ridotta. Si tratta di culti antichi, popolazioni mitiche, seguaci di riti quasi dimenticati che si risvegliano per questo evento irripetibile. La loro esistenza stessa nel diciannovesimo secolo, oltre al fatto che si muovano e combattano in territorio italiano come se niente fosse, penso possa mettere a dura prova anche il lettore meglio disposto alla "sospensione dell'incredulità". Tanto più quando si affiancano ai travagli di Zeferina e alla sua vita di povertà, alla speranza di andare in Merica (America) a rifarsi un futuro, e altri simili dettagli di vita amara e stentata pesantemente veristici, stile Giovanni Verga.
Quanto allo stile ho trovato belle alcune descrizioni ma pesanti certi dialoghi spezzettati e frantumati (iperrealistici, direi). In una lunga parte centrale del libro è difficile capire cosa sta succedendo, a meno di tornare indietro e ripensare attentamente i capitoli precedenti per studiarne il significato, ammesso di volerlo fare: l'autore non è affatto sconclusionato, però io a un certo punto ho smesso di stare al suo gioco: perché la fatica di comprenderlo non mi dava abbastanza soddisfazione.
Non voglio dare un'impressione completamente negativa del libro, comunque. Se il personaggio di Nero m'è parso poco soddisfacente, confuso e poco comprensibile nelle motivazioni, quello di Zeferina è ben riuscito e avvincente e riesce a trascinare il lettore nella sua lotta generosa e instancabile.
Non so quanto le mie impressioni possano valere per spingere un potenziale acquirente a comprare o non comprare il libro. In buona parte le mie critiche toccano temi su cui ho dei punti di vista abbastanza consolidati e discordanti con il trattamento della materia da parte dell'autore (con cui peraltro non ho beghe di amicizia o inimicizia, o faide sanguinose nel meglio stile del fantastico italiano). Perciò Zeferina non mi ha preso, ma è un discorso in buona parte personale.
La difficoltà di lettura in alcune parti mi pare un dato più oggettivo ma in effetti può essere influenzata dal mio scarso coinvolgimento, come io ho trovato superflui certi virtuosismi un altro potrebbe rimanerne estasiato. Se non vi va di condividere il mio punto di vista per capire il mio giudizio (e sapere se accettarlo o meno), la strada è solo quella di cercare altre recensioni o comprarvi Zeferina e crearvi la vostra opinione.
Qua sotto il link per andare alla pagina di aNobii riguardante questo libro.
Zeferina
lunedì 19 ottobre 2009
A Game of Thrones
Il gioco ispirato alla saga di George Martin è uscito già da qualche anno per la Fantasy Flight; ha visto due successive espansioni che hanno permesso di aggiungere nuove regole e più partecipanti alla partita. Un successo indubbio questo A Game of Thrones, un gioco a zone con qualche regola originale che snellisce le procedure e qualche reminiscenza antica, che richiama antenati famosi nella dinastia dei giochi da tavolo di successo.
La mappa raffigura il mondo immaginario di Martin, compreso il misterioso nord da cui partono le terribili incursioni dei Wildling. Le pedine, in legno, rappresentano fanteria, cavalleria, armi da assedio e navi (il potere navale gioca un ruolo non trascurabile). Nelle varie zone possono esserci castelli (utili per il reclutamento di armate), simboli di potere (corone) o potenziale economico (botti). Una delle astuzie di questo gioco è che, sebbene ci siano considerazioni logistiche di cui tenere conto e un gioco politico per l'assegnazione del Trono di Ferro e di altre aree di influenza, non c'è una scadenza fissa in cui tenere queste fasi, il che rende molto meno noioso e prevedibile lo svolgersi del turno. E' per mezzo di alcune carte speciali che si svolgono le fasi logistiche e politiche.
La diplomazia ha molta importanza in A Game of Thrones (e qui viene in mente la parentela con l'antichissimo Diplomacy) perché l'esecuzione degli ordini (che vengono dati alle truppe per mezzo di pedine capovolte, svelate da tutti contemporaneamente) porta un elemento essenziale: l'appoggio delle unità (o flotte) alle azioni difensive o offensive delle unità adiacenti, o il loro tentativo di interferire (usando i raid) con le unità altrui per impedire il loro ruolo di appoggio. In pratica quello che può sembrare un attacco ben congegnato fallisce spesso e volentieri perché il nemico (e magari anche qualche neutrale che pensavamo fuori dalla contesa) ci mette lo zampino.
Quanto agli incursori del nord, si segue la falsariga di altri giochi che pur essendo competitivi hanno un elemento di collaborazione: i giocatori sono chiamati a resistere tutti assieme e tutti sono penalizzati se non respingono gli assalti (gestiti in maniera astratta).
Non si tirano dadi per risolvere il combattimento. Oltre al potenziale militare, che si computa con il complesso sistema di attacchi, raid e appoggi che ho descritto prima, si ha una variante segreta ma non casuale: il leader.
Ciascun giocatore ha diverse carte che rappresentano i suoi comandanti (sono ispirati ai personaggi dei libri di George Martin). Le loro doti sono: la quantità di punti che aggiungono alle forze in campo, il possibile "bonus" di danni inflitti se si vince (o salvati se si perde), e varie capacità personali che possono avere un effetto molto sorprendente. La tentazione di "giocarsi" i leader migliori fin da subito è forte, ma bisogna ricordare che il piccolo mazzo va terminato, prima di essere giocato di nuovo, quindi anche i peggiori comandanti devono avere la loro giornata ed è indispensabile sapersi giocar bene (è proprio il caso di dirlo) le proprie carte.
Sistema di gioco accattivante e con qualche pizzico di novità; per me, che non ho mai amato Diplomacy, l'influenza del gioco di appoggi e controappoggi prima della battaglia è un po' fastidiosa (e apre la strada ai più infami tradimenti!), ma l'idea generale che ne ho ricavato è di un misto valido e innovativo di elementi di gioco tradizionali e originali. Nelle mie partite ci si trovava spesso ad incontrare subito il nemico, e generalmente ne risultava un gioco di assalti e ritirate dove ogni tanto si perdeva una regione per poi riguadagnarne un'altra. C'è sempre stato chi riusciva a scardinare la difesa di un altro giocatore a proprio vantaggio, diventando il protagonista della partita, ma c'era anche una frequente sensazione di essere incastrati in situazioni senza sblocco. Riflettendoci con gli altri giocatori ho lamentato gli scarsi spazi di manovra (c'è poco terreno "libero" da conquistare nelle partite a molti giocatori), ma onestamente non ho potuto verificare se, giocando in pochi, le cose cambino in maniera significativa. Non apprezzerei comunque l'eventualità che ad alcuni venga data la possibilità di espandersi, e ad altri no.
Credo di averci messo poca sottigliezza e attenzione, nelle mie scarse partite: ovvero, avendo sfruttato poco il potenziale diplomatico del gioco, che è una componente essenziale, mi sono intestardito nel ruolo militare che non basta da solo a risolvere le situazioni. In effetti ricordo qualche grande successo, però di breve durata.
In altre parole, questo è un gioco solo in apparenza semplice, e non avendolo ancora esplorato con la calma e la profondità necessarie, trattengo le critiche e mi limito a dire che l'ho giocato abbastanza da capire che è interessante ma non a sufficienza per godermelo pienamente. Per gli amanti dei giochi da tavolo è senz'altro degno di sperimentazione; accessibile anche al neofita ben motivato.
Se volete vedere foto della mappa e dei pezzi migliori delle mie: eccovi la pagina di Boardgamegeek su A Game of Thrones
mercoledì 14 ottobre 2009
Una grana per Stephanie Meyer
Questa probabilmente la sapete già. L'autrice di Twilight (che abbiamo avuto il piacere di vedere per tre secondi e mezzo anche nell'omonimo film) è chiamata in causa da un'altra scrittrice con l'accusa di aver copiato (o tratto pesantemente ispirazione) da alcune parti del suo libro The Nocturne. L'opera di Stephanie Meyer in questione non è lo stesso Twilight ma Breaking Dawn, il quarto libro della serie.
L'accusa parte dalla giovane Jordan Scott, che avrebbe scritto il suo libro dai 15 ai 18 anni, pubblicandolo nel 2006 con Barnes and Noble in 5.000 copie tutte andate vendute. Insomma, una baby-autrice. Alla faccia di chi pensava che sta scalogna ci fosse solo da noi.
Breaking Dawn è stato pubblicato nel 2008 (i precedenti libri della serie sono comparsi tra il 2005 e il 2007). Secondo l'accusa della signorina Scott, ora ventunenne, Breaking Dawn è diverso dagli altri libri della serie, e questo perché avrebbe ricevuto l'influenza stilistica del suo Nocturne, in dialogo, trama e personaggi rappresentati. Chi ha letto le parti incriminate riferisce di situazioni e dialoghi molto simili, per quanto la Meyer abbia detto di non aver mai letto The Nocturne.
La giovane miracolosa scrittrice, oltraggiata dal saccheggio del proprio patrimonio intellettuale, ha intimato a Stephanie Meyer di cessare la pubblicazione di Breaking Dawn. Chi lo avrebbe mai detto, la Meyer se n'è fregata. Pertanto la faccenda sta finendo in tribunale.
Le mie considerazioni in merito:
1) Se ha dovuto davvero copiare da una che ha pubblicato a 18 anni, il livello medio della serie non è aumentato molto, a partire da Twilight.
2) Forse quando ci si limita a rimescolare i soliti quattro elementi in croce che fanno la moda di turno, certi inconvenienti sono inevitabili anche senza che nessuno abbia voluto copiare. Un po' come se si fossero mischiati gli ingranaggi che scrivevano i romanzetti sconci per i prolet in 1984 di Orwell...
3) Comunque intentare una causa contro qualcuno di più celebre può sempre essere uno stratagemma promozionale... Se poi si ha ragione, ci scappano anche dei bei soldi. Sarà vero che Michael Jackson ha voluto copiare Al Bano? (pensate un po', Al Bano Carrisi...). Chi lo sa, ma qualche milione di dollari alla fine ha dovuto darglielo...
4) Se il primo libro della Meyer è uscito nel 2005 e quello della Scott nel 2006, non è che la Meyer potrebbe invece accusare la Scott di aver scopiazzato le sue tematiche?
5) In attesa di vedere come finisce questa storia, facciamoci due risate.
L'accusa parte dalla giovane Jordan Scott, che avrebbe scritto il suo libro dai 15 ai 18 anni, pubblicandolo nel 2006 con Barnes and Noble in 5.000 copie tutte andate vendute. Insomma, una baby-autrice. Alla faccia di chi pensava che sta scalogna ci fosse solo da noi.
Breaking Dawn è stato pubblicato nel 2008 (i precedenti libri della serie sono comparsi tra il 2005 e il 2007). Secondo l'accusa della signorina Scott, ora ventunenne, Breaking Dawn è diverso dagli altri libri della serie, e questo perché avrebbe ricevuto l'influenza stilistica del suo Nocturne, in dialogo, trama e personaggi rappresentati. Chi ha letto le parti incriminate riferisce di situazioni e dialoghi molto simili, per quanto la Meyer abbia detto di non aver mai letto The Nocturne.
La giovane miracolosa scrittrice, oltraggiata dal saccheggio del proprio patrimonio intellettuale, ha intimato a Stephanie Meyer di cessare la pubblicazione di Breaking Dawn. Chi lo avrebbe mai detto, la Meyer se n'è fregata. Pertanto la faccenda sta finendo in tribunale.
Le mie considerazioni in merito:
1) Se ha dovuto davvero copiare da una che ha pubblicato a 18 anni, il livello medio della serie non è aumentato molto, a partire da Twilight.
2) Forse quando ci si limita a rimescolare i soliti quattro elementi in croce che fanno la moda di turno, certi inconvenienti sono inevitabili anche senza che nessuno abbia voluto copiare. Un po' come se si fossero mischiati gli ingranaggi che scrivevano i romanzetti sconci per i prolet in 1984 di Orwell...
3) Comunque intentare una causa contro qualcuno di più celebre può sempre essere uno stratagemma promozionale... Se poi si ha ragione, ci scappano anche dei bei soldi. Sarà vero che Michael Jackson ha voluto copiare Al Bano? (pensate un po', Al Bano Carrisi...). Chi lo sa, ma qualche milione di dollari alla fine ha dovuto darglielo...
4) Se il primo libro della Meyer è uscito nel 2005 e quello della Scott nel 2006, non è che la Meyer potrebbe invece accusare la Scott di aver scopiazzato le sue tematiche?
5) In attesa di vedere come finisce questa storia, facciamoci due risate.
domenica 11 ottobre 2009
Watchmen
Sempre un po' sospettoso verso i supereroi yankee, mi sono alla fine deciso a vedere questo film. Watchmen è tratto da un celeberrimo fumetto e il dibattito spesso gira intorno al dubbio se il regista (Zack Snyder) abbia seguito con sufficiente rispetto e fedeltà l'opera di Alan Moore e Dave Gibbons. Non ho letto il fumetto perciò posso risparmiarmi l'assillo di valutare questo aspetto; mi limito a dire che il film, visto senza pietre di paragoni precedenti, è davvero bello: come il famoso Cavaliere Oscuro di Christopher Nolan ha il pregio di essere un film fantastico ma strettamente compenetrato con la realtà, in questo caso una realtà alternativa. Un po' di sforzo in più per crederci, ma molto meglio di quegli scenari vuoti in cui si muovevano i primi eroi in calzamaglia. Comunque la presentazione dell'ambientazione è davvero convincente e credibile. Watchmen ha dalla sua inoltre molte scene accattivanti per scenari e colori, e un'atmosfera cupamente meditativa in una storia che abbraccia diversi decenni, in cui gli eroi in maschera si rivelano fragili e vulnerabili: soffrono e muoiono, vengono sostituiti da altri eroi più giovani, e infine sono costretti all'inattività dal governo.
Sviluppata razionalmente la premessa di una realtà diversa: l'intervento di un eroe "onnipotente," il Dottor Manhattan, vince la guerra del Vietnam per gli USA e mette nell'angolo l'URSS, ma lo scontro nucleare diventa sempre più probabile con la prospettiva di un cataclisma fatale all'umanità.
Da qui le azioni dei nostri eroi, intenzionati in modi diversi a intervenire, spinti dall'uccisione (all'inizio del film) di uno di loro. Quello che trovo accattivante in Watchmen è l'uso di una trama piuttosto complessa e intelligente, la coralità dell'azione tra diversi personaggi gestita senza generare confusione, l'ambiguità morale di tutte le decisioni non importa quanto ben intenzionate (tema fondamentale del film, che raggiunge l'apice nel finale), certi momenti di opprimente, cupa tristezza e malinconia, l'atmosfera da giorno del giudizio.
C'è magari anche qualche magagna ma sopportabile. Ricco e avvincente, Watchmen ha tutta la potenza del meglio riuscito cinema americano. Devo dire di averlo trovato anche più bello di quanto mi aspettassi e forse superiore all'ultimo Batman, se vogliamo fare un confronto all'interno di questo genere. Ma lo consiglio anche a chi, di solito, dei supereroi non ne vuol proprio sapere.
Il Dr Manhattan, nella sua serenità filosofica, distribuisce democraticamente la morte ai Vietcong
Sviluppata razionalmente la premessa di una realtà diversa: l'intervento di un eroe "onnipotente," il Dottor Manhattan, vince la guerra del Vietnam per gli USA e mette nell'angolo l'URSS, ma lo scontro nucleare diventa sempre più probabile con la prospettiva di un cataclisma fatale all'umanità.
Da qui le azioni dei nostri eroi, intenzionati in modi diversi a intervenire, spinti dall'uccisione (all'inizio del film) di uno di loro. Quello che trovo accattivante in Watchmen è l'uso di una trama piuttosto complessa e intelligente, la coralità dell'azione tra diversi personaggi gestita senza generare confusione, l'ambiguità morale di tutte le decisioni non importa quanto ben intenzionate (tema fondamentale del film, che raggiunge l'apice nel finale), certi momenti di opprimente, cupa tristezza e malinconia, l'atmosfera da giorno del giudizio.
C'è magari anche qualche magagna ma sopportabile. Ricco e avvincente, Watchmen ha tutta la potenza del meglio riuscito cinema americano. Devo dire di averlo trovato anche più bello di quanto mi aspettassi e forse superiore all'ultimo Batman, se vogliamo fare un confronto all'interno di questo genere. Ma lo consiglio anche a chi, di solito, dei supereroi non ne vuol proprio sapere.
martedì 6 ottobre 2009
Libri come MP3?
Ho già scritto qui cosa ne penso dei lettori di ebook e dell'annunciata rivoluzione digitale che potrebbe portare il libro cartaceo a crollare da mezzo dominante della lettura a preferenza retrograda di uno zoccolo duro. L'argomento merita qualche aggiornamento.
A conferma che il processo di digitalizzazione della lettura non impiegherà poco tempo è venuto un articolo sui giornali di pochi giorni fa riguardo agli studenti che restituivano i lettori Kindle avuti in prova da Amazon, affermando che non è possibile usare il lettore di ebook come mezzo per studiare.
Posso ben crederci. Spesso i testi elettronici non hanno il numero di pagina e anche quando ce l'hanno il livello di zoom che stai usando può far sì che non sia sott'occhio. Il lettore ha le sue comodità: ti porta sempre all'ultima pagina che hai letto (e ti permette di mettere dei bookmark) ma la sensazione fisica del libro, che puoi guardare valutando "ad occhio" a che punto sei, che puoi sfogliare soffermandoti su qualche parola per vedere se hai trovato il riferimento che vai cercando, è ancora ben lontana dal mondo simulato dei lettori. I libri di studio si sfogliano velocemente avanti e indietro, non sono romanzi che si leggono dal principio alla fine.
Questo non vuol dire che consideri i lettori un fallimento, tutt'altro. Ci tengo a precisare che dopo averne comprato uno non l'ho chiuso in un cassetto. Sia pure in maniera non frenetica, lo uso e lo trovo piacevole, ma non è privo di difetti. Comunque, sembra che la tecnologia ci consegnerà a breve delle novità PAZZESCHE. Sarà vero? Aspettiamo e vedremo.
Quanto alle possibilità che la digitalizzazione aprirebbe all'editoria, sono sempre più convinto che siano almeno in parte positive. Questo perché, dopo essermi fatto un'idea di come le case editrici scelgono quello che pubblicheranno, ritengo che più possibilità ci sono di arrivare ai lettori, meglio è. Saltando i nodi della distribuzione alle librerie e del conquistarsi lo spazio fisico negli scaffali, la digitalizzazione è assolutamente uno sviluppo positivo e, diciamo, "democratico." Resta la minaccia di essere travolti da libri di pessima qualità che non hanno avuto il minimo controllo editoriale, che metta quantomeno la forma a posto, ma visto come questo lavoro viene svolto male (anche da case famose) non lo vedo più come quel grande problema.
Una tendenza di oggi, in cui lo scrittore deve "crearsi un'immagine" e diventare veicolo promozionale di quello che ha scritto, potrebbe essere accentuata con la digitalizzazione.
Non ne sono contento, sebbene ritenga che sia sacrosanto che uno scrittore vada a tenere presentazioni del suo libro, ecc... (vedi il mio vecchio post).
Ma trovo molto peggio la prospettiva che il mercato venga travolto dalla diffusione di testi pirata.
Ok, detto questo, facciamo dei distinguo.
Distinguo n.1 L'imperialismo editoriale che alcuni distributori stanno cercando di mettere in piedi è anche peggio. Mi riferisco alle chicche come Kindle, di cui ho già accennato con antipatia nel post linkato all'inizio di questo articolo. Il ragionamento di Amazon è odioso. Vendo il mio lettore, creo il mio formato proprietario, ti vendo i libri con un semplice click e ti faccio un piccolo sconto. E guadagno un'enormità in più rispetto alla versione cartacea, mettendomi in tasca la maggior parte del risparmio che ottengo dandoti un libro digitale e non cartaceo. Lo considero scorretto e sconveniente per il cliente come vendere i film da scaricare con il DRM e altre scocciature simili. Credo però che questi sistemi non bloccheranno la pirateria, sia perché quelli che li escogitano sono troppo avidi, sia perché storicamente si è trovata sempre la contromossa che permette di aggirare le difese di un certo tipo.
Distinguo n.2 Quando un libro non è più in vendita sul mercato non vedo cosa dovrebbe fare uno che vuole leggerlo, se non cercare una versione digitale, quando sia disponibile.
Quello che rischia di succedere intorno all'editoria potrebbe essere non diverso da ciò che è successo alla musica.
Praticamente la vendita dei dischi rende poco o niente e bisogna inventarsi qualcosa di diverso (megaconcerti, ad esempio) per realizzare dei guadagni. C'è chi applaudiva alla diffusione degli MP3 come un mezzo che dava possibilità ai giovani artisti e a quelli che cercavano di emergere, ma io ho letto più di una volta le lamentele proprio di quelli che cercavano di farsi un nome, che si trovavano a non avere nemmeno quel modesto guadagno che la vendita di poche migliaia di CD poteva dar loro. Il grosso artista spinto dalla casa musicale può galleggiare su altre fonti di guadagno meglio di quello piccolo (anche se ovviamente la perdita di reddito ai discografici brucia parecchio). Comunque la prova del nove, sia pure in forma del tutto opinabile, potrebbe essere questa: facciamoci la domanda: dopo anni che la musica si diffonde praticamente gratis per mezzo del peer to peer, l'offerta che trovi in giro è migliorata? So bene che per chi segue una piccola nicchia ben precisa e se ne frega del resto la domanda non ha senso. Ma per i tanti come me che non hanno (più) tempo né voglia di sofisticare sui gusti musicali, la risposta è evidente. Non siamo tornati a vera musica di veri artisti, quella che ormai da trent'anni non c'è quasi più. Siamo ancora e più che mai travolti dalle costruzioni a tavolino delle case discografiche.
Il peer to peer non ha guidato nessuna rivoluzione, e se ha fatto danni per la grande casa discografica probabilmente ha reso una vera impresa per gli autori minori il procurarsi da vivere con la musica (se parliamo degli stranieri: gli italiani tranne una manciata di nomi non ce l'hanno mai fatta).
Trasferendo il discorso all'editoria (che già non gode di ottima salute), e immaginando che i formati digitali diventino facilmente oggetto di diffusione peer to peer, il mio timore è che gli effetti siano di completa distruzione del mercato.
Paradossalmente, visto che pochi in Italia vivono scrivendo, il danno potrebbe essere relativo; all'estero molto più serio. Per i successi del largo consumo non mi metto a piangere: se la prossima fatica della Rowling (o anche di Licia Troisi, perché no) guadagnasse un decimo di quello che guadagna di solito, sarebbe meglio. Certi fenomeni a volte ridicoli verrebbero ricondotti a dimensioni normali (nel senso che girandoci attorno meno quattrini, converrebbe meno pomparli con il marketing e la creazione di miti di cartapesta). Ma non ritengo giusto che uno scrittore minore o un esordiente non ci guadagni nemmeno quei cento o mille euro (ho scritto mille? mi sa che sono ottimista).
Come andranno le cose? I piccoli editori spazzati completamente via? I grandi ridimensionati, e però ancora lì?
Chi lo sa. Sarebbe una buona cosa? Penso di no.
Ma in un mercato di libri digitalizzati, senza più librerie e senza più distribuzione fisica, cosa sarebbe un piccolo editore? Solo uno che, con più o meno autorevolezza mette "la propria faccia" a sostegno di un autore.
Quale differenza tra un autore che pubblica con un editore del genere e uno scrittore che disperde il suo lavoro nell'enorme nulla di mercati stile lulu.com?
Ultimissima considerazione: certe preoccupazioni magari sono solo inutili. Succederà quello che deve succedere, insomma, e qualche bel libro lo troveremo sempre.
Non è mica detto che ci debba essere un'industria che vende libri per raccogliere introiti. C'è stato un passato in cui le arti erano sostenute da pochi ricchi mecenati che sovvenzionavano generosamente gli artisti.
Vedo già nel mondo anglosassone tanti che, per il fatto di produrre materiale del genere più svariato (un sistema di GDR pubblicato su un sito internet, informazioni su questo o quell'argomento, un bel blog eccetera) provano a farsi ricompensare con un bel bottone "Donate" e un conto Paypal che riceve le offerte di chi vuole premiarli con qualche soldino.
Noi italiani siamo un po' pidocchiosi su queste cose, ma chi lo sa, questi sistemi potrebbero un bel giorno affermarsi anche da noi. Così gli autori pur non potendo imporre il pagamento dei loro libri potrebbero ricevere il contributo di tanti piccoli donatori, mecenati da qualche euro alla volta.
Ma ovviamente questo è il ragionamento di uno che, pur aspirando a pubblicare, si guadagna da vivere in un altro modo.
A conferma che il processo di digitalizzazione della lettura non impiegherà poco tempo è venuto un articolo sui giornali di pochi giorni fa riguardo agli studenti che restituivano i lettori Kindle avuti in prova da Amazon, affermando che non è possibile usare il lettore di ebook come mezzo per studiare.
Posso ben crederci. Spesso i testi elettronici non hanno il numero di pagina e anche quando ce l'hanno il livello di zoom che stai usando può far sì che non sia sott'occhio. Il lettore ha le sue comodità: ti porta sempre all'ultima pagina che hai letto (e ti permette di mettere dei bookmark) ma la sensazione fisica del libro, che puoi guardare valutando "ad occhio" a che punto sei, che puoi sfogliare soffermandoti su qualche parola per vedere se hai trovato il riferimento che vai cercando, è ancora ben lontana dal mondo simulato dei lettori. I libri di studio si sfogliano velocemente avanti e indietro, non sono romanzi che si leggono dal principio alla fine.
Questo non vuol dire che consideri i lettori un fallimento, tutt'altro. Ci tengo a precisare che dopo averne comprato uno non l'ho chiuso in un cassetto. Sia pure in maniera non frenetica, lo uso e lo trovo piacevole, ma non è privo di difetti. Comunque, sembra che la tecnologia ci consegnerà a breve delle novità PAZZESCHE. Sarà vero? Aspettiamo e vedremo.
Quanto alle possibilità che la digitalizzazione aprirebbe all'editoria, sono sempre più convinto che siano almeno in parte positive. Questo perché, dopo essermi fatto un'idea di come le case editrici scelgono quello che pubblicheranno, ritengo che più possibilità ci sono di arrivare ai lettori, meglio è. Saltando i nodi della distribuzione alle librerie e del conquistarsi lo spazio fisico negli scaffali, la digitalizzazione è assolutamente uno sviluppo positivo e, diciamo, "democratico." Resta la minaccia di essere travolti da libri di pessima qualità che non hanno avuto il minimo controllo editoriale, che metta quantomeno la forma a posto, ma visto come questo lavoro viene svolto male (anche da case famose) non lo vedo più come quel grande problema.
Una tendenza di oggi, in cui lo scrittore deve "crearsi un'immagine" e diventare veicolo promozionale di quello che ha scritto, potrebbe essere accentuata con la digitalizzazione.
Non ne sono contento, sebbene ritenga che sia sacrosanto che uno scrittore vada a tenere presentazioni del suo libro, ecc... (vedi il mio vecchio post).
Ma trovo molto peggio la prospettiva che il mercato venga travolto dalla diffusione di testi pirata.
Ok, detto questo, facciamo dei distinguo.
Distinguo n.1 L'imperialismo editoriale che alcuni distributori stanno cercando di mettere in piedi è anche peggio. Mi riferisco alle chicche come Kindle, di cui ho già accennato con antipatia nel post linkato all'inizio di questo articolo. Il ragionamento di Amazon è odioso. Vendo il mio lettore, creo il mio formato proprietario, ti vendo i libri con un semplice click e ti faccio un piccolo sconto. E guadagno un'enormità in più rispetto alla versione cartacea, mettendomi in tasca la maggior parte del risparmio che ottengo dandoti un libro digitale e non cartaceo. Lo considero scorretto e sconveniente per il cliente come vendere i film da scaricare con il DRM e altre scocciature simili. Credo però che questi sistemi non bloccheranno la pirateria, sia perché quelli che li escogitano sono troppo avidi, sia perché storicamente si è trovata sempre la contromossa che permette di aggirare le difese di un certo tipo.
Distinguo n.2 Quando un libro non è più in vendita sul mercato non vedo cosa dovrebbe fare uno che vuole leggerlo, se non cercare una versione digitale, quando sia disponibile.
Quello che rischia di succedere intorno all'editoria potrebbe essere non diverso da ciò che è successo alla musica.
Praticamente la vendita dei dischi rende poco o niente e bisogna inventarsi qualcosa di diverso (megaconcerti, ad esempio) per realizzare dei guadagni. C'è chi applaudiva alla diffusione degli MP3 come un mezzo che dava possibilità ai giovani artisti e a quelli che cercavano di emergere, ma io ho letto più di una volta le lamentele proprio di quelli che cercavano di farsi un nome, che si trovavano a non avere nemmeno quel modesto guadagno che la vendita di poche migliaia di CD poteva dar loro. Il grosso artista spinto dalla casa musicale può galleggiare su altre fonti di guadagno meglio di quello piccolo (anche se ovviamente la perdita di reddito ai discografici brucia parecchio). Comunque la prova del nove, sia pure in forma del tutto opinabile, potrebbe essere questa: facciamoci la domanda: dopo anni che la musica si diffonde praticamente gratis per mezzo del peer to peer, l'offerta che trovi in giro è migliorata? So bene che per chi segue una piccola nicchia ben precisa e se ne frega del resto la domanda non ha senso. Ma per i tanti come me che non hanno (più) tempo né voglia di sofisticare sui gusti musicali, la risposta è evidente. Non siamo tornati a vera musica di veri artisti, quella che ormai da trent'anni non c'è quasi più. Siamo ancora e più che mai travolti dalle costruzioni a tavolino delle case discografiche.
Il peer to peer non ha guidato nessuna rivoluzione, e se ha fatto danni per la grande casa discografica probabilmente ha reso una vera impresa per gli autori minori il procurarsi da vivere con la musica (se parliamo degli stranieri: gli italiani tranne una manciata di nomi non ce l'hanno mai fatta).
Trasferendo il discorso all'editoria (che già non gode di ottima salute), e immaginando che i formati digitali diventino facilmente oggetto di diffusione peer to peer, il mio timore è che gli effetti siano di completa distruzione del mercato.
Paradossalmente, visto che pochi in Italia vivono scrivendo, il danno potrebbe essere relativo; all'estero molto più serio. Per i successi del largo consumo non mi metto a piangere: se la prossima fatica della Rowling (o anche di Licia Troisi, perché no) guadagnasse un decimo di quello che guadagna di solito, sarebbe meglio. Certi fenomeni a volte ridicoli verrebbero ricondotti a dimensioni normali (nel senso che girandoci attorno meno quattrini, converrebbe meno pomparli con il marketing e la creazione di miti di cartapesta). Ma non ritengo giusto che uno scrittore minore o un esordiente non ci guadagni nemmeno quei cento o mille euro (ho scritto mille? mi sa che sono ottimista).
Come andranno le cose? I piccoli editori spazzati completamente via? I grandi ridimensionati, e però ancora lì?
Chi lo sa. Sarebbe una buona cosa? Penso di no.
Ma in un mercato di libri digitalizzati, senza più librerie e senza più distribuzione fisica, cosa sarebbe un piccolo editore? Solo uno che, con più o meno autorevolezza mette "la propria faccia" a sostegno di un autore.
Quale differenza tra un autore che pubblica con un editore del genere e uno scrittore che disperde il suo lavoro nell'enorme nulla di mercati stile lulu.com?
Ultimissima considerazione: certe preoccupazioni magari sono solo inutili. Succederà quello che deve succedere, insomma, e qualche bel libro lo troveremo sempre.
Non è mica detto che ci debba essere un'industria che vende libri per raccogliere introiti. C'è stato un passato in cui le arti erano sostenute da pochi ricchi mecenati che sovvenzionavano generosamente gli artisti.
Vedo già nel mondo anglosassone tanti che, per il fatto di produrre materiale del genere più svariato (un sistema di GDR pubblicato su un sito internet, informazioni su questo o quell'argomento, un bel blog eccetera) provano a farsi ricompensare con un bel bottone "Donate" e un conto Paypal che riceve le offerte di chi vuole premiarli con qualche soldino.
Noi italiani siamo un po' pidocchiosi su queste cose, ma chi lo sa, questi sistemi potrebbero un bel giorno affermarsi anche da noi. Così gli autori pur non potendo imporre il pagamento dei loro libri potrebbero ricevere il contributo di tanti piccoli donatori, mecenati da qualche euro alla volta.
Ma ovviamente questo è il ragionamento di uno che, pur aspirando a pubblicare, si guadagna da vivere in un altro modo.
lunedì 5 ottobre 2009
District 9
Un film di fantascienza, questo District 9, che si è presentato con una campagna promozionale bizzarra (un po' come era avvenuto tanti anni fa per l'Esercito delle Dodici Scimmie). Vedendo gli autobus andare in giro per le vie con i cartelli "vietato ai non umani" sicuramente una certa curiosità rimane impressa. Il fatto che fosse prodotto da Peter Jackson, che non sarà magari un artista geniale ma è comunque un ottimo regista, mi ha definitivamente spinto ad andare a vederlo (il regista comunque è un certo Neill Blomkamp).
Argomento del film è l'arrivo sulla terra di una razza aliena che è costretta a rimanere ospite dell'umanità per un lungo periodo (un po' come in Alien Nation). Solo che questi alieni sono numerosi, violenti e stupidi e anziché insegnare all'umanità qualcosa della loro prodigiosa tecnologia finiscono in un ghetto. Mi è sembrata una forzatura sciocca, ma per spingere il pedale a fondo sull'idea, come se non avessimo capito, la scelta per questo ghetto è caduta sul Sudafrica (che la segregazione razziale ce la ricorda da vicino, visto il tipo di regime che ha avuto fino a qualche tempo fa). Giocando con il paradosso vediamo nei primi minuti del film (che sono stile documentario) le critiche seccate di molti neri che gli alieni non li vogliono, chiedono che vadano via ecc... anche se i cattivoni nel seguito del film, i soliti mercenari assassini che fanno i lavori sporchi (proprio come in The Island che ho appena visto), sono tutti bianchi (con una eccezione o due, se ho visto bene).
Non si capisce peraltro se il film vuole fare della satira sul razzismo o saltare il fosso e praticarlo in maniera (poco) camuffata, visto che altri cattivoni del ghetto sono una grossa banda di mafiosi nigeriani con tanto di prostitute al seguito: classici stereotipi di "negracci da ghetto" che fanno coppia con i "gamberoni" (ovvero gli alieni) nel ruolo della spazzatura da rinchiudere e isolare. Per inciso, la Nigeria ha protestato.
Sempre riguardo al razzismo, al protagonista del film accadrà qualcosa che sarà la classica giustizia poetica per il suo atteggiamento verso i "gamberoni".
Ma il vero problema di District 9 è che calpesta la logica ripetutamente e spietatamente. Non ha coerenza interna. Mi si dirà che qualche vaccata per rendere un film più spettacolare ci può stare, ma qui si supera la soglia critica.
Se mi posso permettere qualche spoiler, abbiamo un funzionario evidentemente mediocre (Wikus, interpretato da un attore praticamente sconosciuto) che gestisce il trasferimento del ghetto verso un luogo maggiormente isolato, messo in un ruolo importante solo perché è un raccomandato. E' un fessacchiotto, ma poi chissà perché si comporterà come un soldato dei commando e recupererà un oggetto che tutte le nazioni del mondo si sarebbero svenate per avere. E scappa per tornare nel District 9 senza essere beccato dai mercenari paramilitari o fermato dalla sorveglianza.
Wikus, che è stato ormai abbandonato da tutti per un motivo che non vi dico, usa un cellulare nel tentativo disperato di ricevere assistenza da amici e parenti: ma i cattivi useranno questa traccia per individuare il fuggitivo solo quando farà comodo alla trama del film.
Gli alieni hanno con sé un sacco di armi ma gli umani non possono usarle perché attivate biologicamente. Motivo per cui la possibilità di impadronirsi di questa tecnologia giocherà un ruolo importante nel film. Ma se queste sono le premesse il fatto che sembrino dei semplici fucili mitragliatori, giusto un po' strani, mi ha fatto sorridere. E poi, vi prego, qualcuno mi spieghi perché i "gamberoni" subiscono tante prepotenze senza reagire, se è vero che sono impulsivi e stupidi e hanno tutte queste armi così potenti.
Dal momento che Wikus stava notificando lo sfratto ai "gamberoni" c'è anche da chiedersi come mai nel seguito del film non succede nulla (il termine era 24 ore) e ci si ricordi del trasferimento a un altro distretto solo nel finale. Ok, questo in fondo è un dettaglio da niente, soprattutto se confrontato con altre illogicità.
Molto bizzarro il fatto che la coppia formata da Wikus e Christopher, l'alieno che è diventato suo alleato, non venga aiutata dagli altri alieni nel corso di una lunga battaglia con i paramilitari: dopo tutto si trovano in un ghetto che è strapieno di "gamberoni" e Christopher sta lottando per salvare tutti (già, perché lo fa senza aver l'aiuto di nessuno dei suoi?). Forse c'era bisogno di una scena madre con loro due contro tutti? Il bello è che gli alieni alla fine ricompaiono, per far fuori il cattivo e salvare Wikus in extremis. Dulcis in fundo, se la tecnologia e la biologia aliena sono così interessanti da indurre gli scienziati a fare atroci esperimenti sui gamberoni e addirittura sul povero Wikus, come mai l'astronave se ne rimane sospesa sopra Johannesburg per 20 anni senza che nessuno vada a studiarsela un attimino più a fondo? Mi fermo qui per non sparare troppo sulla Croce Rossa.
Fine Spoiler
Sinceramente la presa di posizione moralistica del film non mi è sembrata né particolarmente ben riuscita, né originale. Espressa con intensità ma superficiale, direi (già che ci siamo mi metto a fare il razzista anch'io: forse può sembrar profonda a un americano?). E' chiaro che la fantascienza offre la possibilità di fare delle riflessioni sui "diversi," lo ha fatto in tante altre opere, non credo che questa diventerà una delle più memorabili. E la storia è molto povera quanto a verosimiglianza.
Rimane valido lo stile documentaristico della prima mezz'ora, e un look realistico e crudo cercato insistentemente dalla regia: l'ho trovato coinvolgente. Il seguito è un film d'azione per nulla entusiasmante, con una certa dose di sciocchezze, nello stile caro ai registi di oggi. Effetti speciali più che sufficienti, nonostante il film non sia costato tantissimo (per un film straniero di questo genere: ma si tratta comunque di una cifra che in Italia non si riuscirebbe a raccogliere tanto facilmente). Da Peter Jackson però mi aspettavo di meglio. Ho letto parecchi commenti entusiasti ma il mio giudizio verso questo film non è molto lusinghiero, anche se all'inizio mi aveva preso parecchio.
domenica 4 ottobre 2009
Outlander
Devo dire la verità, mi aspettavo che fosse un pessimo film, invece si fa vedere. Ispirato in qualche modo al poema epico Beowulf, invece di troll o draghi Outlander ci presenta un mostro venuto dallo spazio (assieme al protagonista del film, nientemeno), perciò nonostante sia in qualche modo affine al fantasy come immaginario, è in realtà un film di fantascienza.
Effetti speciali più che sufficienti, un budget corposo ma non enorme se confrontato con i grandi film di cassetta di questo genere, un attore (James Caviezel) non di primissima fila ma abbastanza famoso da essere di richiamo: tutto mi fa pensare che Outlander sia stato un tentativo di strappare il successo con un'interpretazione un po' insolita delle solite avventure di vichinghi e mostri: un bel film di serie B, tanto per dire. A dire il vero quel tipo di ambientazione a me piace parecchio, ed è stata ricreata piuttosto bene. Mi è piaciuto anche l'attore protagonista, e trovo che sia stato bravo anche Jack Huston, nei panni dell'impulsivo guerriero Wulfric, che fa nei confronti del protagonista la parte un po' del rivale e un po' dell'amico. E in generale tutti gli attori hanno fatto il loro dovere.
Trovo però che Caviezel, attore energico ma con un preponderante atteggiamento riflessivo e pensoso, non sia stato sfruttato al meglio. La premessa del suo viaggio, della presenza del Moorwen (il mostro) nell'astronave, e del naufragio sulla terra è spiegata in maniera sbrigativa e un po' ridicola. Altri dettagli riguardo alla questione dell'astronave e della tecnologia in mano al protagonista Kainan (Caviezel) li lascio da parte per non anticipare troppo. Diciamo che l'idea che è servita a introdurre un mostro diverso dal solito poteva essere usata creativamente anche per tirar su in qualche modo le sorti del film, e invece purtroppo lo relega al rango di popcorn movie.
Il mostro stesso, che avrebbe potuto essere un punto di forza del film, è malriuscito. Ci sono tantissime opinioni in giro riguardo al Moorwen: ricorda Alien, ricorda Predator... per me ha anche un po' del Balrog del Signore degli Anelli. La cosa più importante è che sa di già visto, prendendo a prestito qua e là molte delle sue caratteristiche.
L'introduzione di un capo tribù di un altro villaggio, che ha una faida in corso contro Wulfric, m'è sembrata un classico caso di troppa carne al fuoco: potrebbe essere interessante ma non c'è tempo per svilupparla bene, e ritarda lo scontro con il Moorwen fino a un momento un po' troppo avanzato del film.
Di fatto Outlander oltre ad avere diverse debolezze è un po' stancante verso il finale: troppo lungo. Potrei aggiungere che tra le varie fonti di ispirazione di questa pellicola secondo me c'è anche Il Tredicesimo Guerriero, per sottolineare un altra mancanza: non riesce ad avere la potenza epica di quel film. Però in fondo Outlander si fa vedere, a mio parere. E visto che lo considero un onesto film di non troppe pretese, m'è spiaciuto leggere che si sta avviando a essere un grosso fiasco commerciale.
giovedì 1 ottobre 2009
Botte da orbi nella Foresta di Sherwood
Per gli appassionati della leggenda di Robin Hood la Rio Grande Games ha prodotto un gioco facile e divertente che permette di calarsi per qualche ora nei panni di eroi che... rubano ai ricchi per dare ai poveri. Il nome è Sherwood Forest.
La struttura del gioco è imperniata effettivamente sulla rapina e sul furto: esiste un percorso dove si possono aspettare viandanti e carovane (in realtà solo due strade che si incrociano a un quadrivio, e quindi quattro diverse destinazioni fuori mappa). I giocatori formano delle squadre che devono aggredire con successo i viandanti (che sono a volte assai debolucci, ma capitano pure delle carovane cariche d'oro e dotate di una forte scorta). Purtroppo passa anche lo sceriffo, a volte, e sono dolori.
Ciò che si ottiene predando i malaugurati che passano sono tre tipi di premio: la fama, che praticamente corrisponde ai punti vittoria, il denaro (rappresentato da sacchi pieni di monete, un po' come nel deposito di Zio Paperone) e talvolta nuovi compagni che si aggiungono al gruppo.
Poiché Robin Hood non è rappresentato nel gioco in realtà i giocatori rappresentano delle bande che hanno preso il suo posto e, sia rivaleggiando che collaborando fra loro, cercano di ripeterne le gesta.
Prima di attaccare le carovane (e vedersela con lo sceriffo) i giocatori affrontano una fase di preparazione logistica inviando i loro uomini a visitare diversi edifici di un villaggio rappresentato simbolicamente in un quadrante del tabellone.
Impegnare gli uomini in queste operazioni ovviamente va a scapito della forza che si può schierare in agguato, perché tornano disponibili solo al prossimo giro, perciò è necessario bilanciare adeguatamente i propri sforzi. Nel villaggio i giocatori possono visitare la chiesa e donare denaro (si guadagnano punti vittoria), acquistare armi per affrontare con maggior potenziale i combattimenti (spendendo denaro), arruolare nuovi uomini nella propria banda (anche questo costa denaro) e infine interrogare i bene informati per scoprire quali sono gli itinerari dei viaggiatori della Foresta di Sherwood. Questo in pratica significa poter sbirciare una o più delle carte che verranno girate più tardi nel turno. Ciascuna di esse indica un percorso da seguire, una forza da sconfiggere, e i premi per gli eventuali vincitori. Le bande preparano gli agguati in precisi tratti di strada perciò possono non essere a tiro di qualche bersaglio succulento, o essere precedute da bande concorrenti che sono meglio posizionate. Notare che chi si mette in agguato può chiamare rinforzi (uomini delle bande rivali) promettendo in cambio una parte del bottino.
Mentre una carovana troppo forte per essere sconfitta passa senza far scattare l'agguato, lo sceriffo è più aggressivo e attacca le bande che sorprende al limitare della strada. Il combattimento è obbligatorio e i giocatori possono perdere degli uomini, però nessuna banda può essere spazzata via del tutto, e lo sceriffo potrebbe essere anche sconfitto (azione che arreca una grande fama a chi la compie). Quando tutte le carte di viaggiatori sono rivelate ed hanno percorso con alterne vicende la Foresta di Sherwood, si passa al turno seguente (ma se le carte dei viaggiatori sono finite si calcola la fama dei giocatori e si vede chi è il vincitore).
Pertanto, se mi avete seguito fino a qui, vi sarà chiaro che si tratta di un gioco assai semplice dove vengono mescolati elementi gestionali con qualche sbiadito ricordo di giochi di guerra. Il meccanismo di gioco è ben oliato, il turno scorre veloce, la partita non si prolunga troppo. Purtroppo nonostante esista l'elemento di informazione (o spionaggio) che dovrebbe, se giocato bene, eliminare qualche brutta sorpresa, successo o sconfitta derivano per una parte un po' troppo grande da fattori casuali, pertanto è difficile impostare una vera e propria strategia in questo gioco.
Giudizio finale: giochino di poco spessore, forse più adatto a partite in famiglia con bambini, zii e nonni. Detto questo, le meccaniche di gioco sono pensate abbastanza bene e i componenti sono graficamente accattivanti.
sabato 26 settembre 2009
Presentazione mancata
Ieri non ce l'ho fatta ad andare alla presentazione di Caverne, esordio di Stefano Bianchi, edito da Montag. Semplicemente, ho avuto una giornata troppo devastante in ufficio (questa è la mia classica excusatio non petita però è andata proprio così).
Bella l'idea del luogo (fisico? metafisico?) in cui i morti di tutte le epoche si ritrovano, anche se non so nulla del resto. Spero di essere in grado di leggerlo a breve, comunque complimenti a Stefano, un altro del mio corso di scrittura creativa che poi "ce l'ha fatta." E' anche un naturale candidato per il Premio Immaginario 2009, se riuscirò a leggerlo in tempo.
Sono invidioso? Sì, un po'.
venerdì 25 settembre 2009
The Island
Mi sono tolto lo sfizio di vedere questo The Island noto per essere stato un clamoroso flop quattro anni fa. Beh, non del tutto: negli USA è andato malissimo, nel resto del mondo ha recuperato perciò le spese iniziali di questo costosissimo film di fantascienza sono state pareggiate e alla fine ha pure guadagnato qualcosa.
Un regista già sperimentato nel fare questi gran videoclip pieni di effetti speciali e poco altro (Michael Bay) e due attori belli e affermati (Ewan McGregor e Scarlett Johansson) non sono bastati a portare al successo un pasticcio di pellicola.
Il film sa troppo di già visto nella tematica (creazione di cloni da usare come riserva di organi per trapianti) e nell'estetica (alcune scene di inseguimento mi hanno ricordato parecchio Matrix, altre tematiche sanno di Blade Runner, e così via). Addirittura la casa cinematografica (DreamWorks) ha subito denunce e più di una segnalazione per plagio di sceneggiature o opere già esistenti: ha pure dovuto ricorrere ad accordi extragiudiziali (ovvero tirar fuori dei soldi) per placare una di queste controversie. Similitudini conclamate (quelle che ci sono nella Wikipedia, ma se volete ne potete trovare altre senza fatica): un romanzo di Marshall Smith intitolato Spares, ovvero "pezzi di ricambio," il racconto di Philip Dick La Penultima Verità, il film La Fuga di Logan, il film Parts: the Clonus Horror. Intendiamoci, l'originalità perfetta non esiste mai, e sulla predazione degli organi ci sarebbe bisogno di parlare eccome (ormai oggi vendersi un organo è legalizzato: dove? A Singapore). Ma il tema della vittima designata che scappa ricalca pesantemente cose già lette o già viste.
Poi c'è una quantità di debolezze nella trama, vere e proprie sciocchezze.
Alcune sono robetta, altre più serie (se non avete ancora visto il film, saltate all'ultimo paragrafo). Un camion su cui i nostri stanno fuggendo perde il carico (assali di ruote di treno, nientemeno) creando un gran caos in autostrada e rallentando gli inseguitori. Quando essi cominciano a bersagliare i fuggitivi da un elicottero, essi sono ancora sul camion, che procede come se l'autista possa non essersi accorto del gran disastro che (non per propria colpa) ha combinato!
Un'altra chicca, o meglio una serie di chicche: Tom Lincoln e il suo clone (personaggi interpretati entrambi da McGregor) hanno un incontro, il clone fuggitivo chiede di essere aiutato, il "vero" Lincoln invece avverte la compagnia di quello che sta succedendo in modo che una spietata pattuglia di paramilitari li blocchi mentre stanno andando agli studi televisivi per denunciare l'immenso crimine: ovviamente la storia della denuncia in TV è quello che crede il clone, il "vero" Tom Lincoln vuole solo che venga catturato.
In una scena ridicola ("Non sono io il clone, è lui!" - "No! E' lui!") il fuggitivo riesce ad essere più credibile (applica al polso del "vero" Lincoln il bracciale di riconoscimento che i paramilitari riconoscono) e così viene ucciso il committente della clonazione, e il clone se ne va tranquillo come se niente fosse. Questi spietati professionisti insomma agiscono d'impulso ammazzando un cliente da milioni di dollari per non prendersi la briga di controllare. Certo, non era facile (uno dei due era armato) ma se la prendono comoda anche a verificare in seguito: avrebbero potuto trattenere il clone, accertare in una decina di secondi di aver sbagliato, e quindi eliminarlo. Invece è il clone a tornare all'attacco sperando di liberare gli altri prigionieri della compagnia (ce ne sono a centinaia, si direbbe dalle scene: cloni che non sanno di esserlo): credendolo il vero Tom Lincoln gli offrono, in cambio del suo silenzio, di clonarlo una seconda volta, lui va e mentre si trova alla compagnia finalmente qualcuno esamina il cadavere del suo doppio e si scopre la verità: il clone è di nuovo braccato e il capo della compagnia in un dialogo gli dice: "Avresti potuto prendere il suo posto e hai deciso di tornare!"
Questa è una cosa che, nei film come più raramente nei libri, mi fa diventar matto. La somiglianza superficiale del clone (che non sa nulla della persona che sostituisce) non avrebbe ingannato nessuna delle persone che l'originale conosce nelle proprie relazioni sociali. Ma siccome la vita quotidiana nei film d'azione non la fanno vedere ci passano tranquillamente sopra. In un sacco di trame (film, serie TV, ecc...) fanno passare per possibile una cosa che non lo sarebbe affatto, pensateci e vi verrà facilmente in mente qualche altro esempio.
A parte questo, la scena è assurda perché lo stesso capo della compagnia è stato appena informato della sostituzione del vero Lincoln. Perciò il clone NON avrebbe potuto prenderne il posto e vivere tranquillo.
Facciamola breve e diciamone solo un'altra: la conversione del capo dei paramilitari, interpretato da Djimon Hounsou che diventa improvvisamente buono e aiuta i nostri eroi. Stiamo parlando di un tizio che ha condotto un'operazione in cui i suoi uomini hanno impersonato le forze di polizia, sparato sui poliziotti veri, sparato su innocenti eccetera: diventa un buono e generoso agnellino nel giro di un paio di scene.
La tematica fantascientifica di The Island a mio parere è ancora degna di essere esplorata anche perché... è sempre meno fantascientifica. La maniera in cui questo film lo fa è assolutamente censurabile perché ricalca, decisamente troppo, varie cose già viste. Per contrasto, ha saputo farne qualcosa che sa abbastanza di nuovo Kazuo Ishiguro con Never Let Me Go, romanzo intimista che vedremo (spero) trasformato in film fra un annetto.
Quanto a The Island, nonostante le scene d'azione spettacolari, penso che il mondo sarebbe un posto migliore se non avesse recuperato nemmeno i soldi dell'investimento iniziale.