martedì 27 ottobre 2009
Zeferina
Se volete la mia opinione sul Fantasy Mediterraneo la trovate in questo vecchio post. Per riassumerla in breve, non c'è motivo per cui elementi di storia e cultura italica o mediterranea non debbano farsi sentire nel fantasy di produzione nostrana, e questa è una banalità perché gli stranieri usano già atmosfere e situazioni di casa nostra (dall'antichità al rinascimento ecc...) senza ovviamente doverci chiedere il permesso.
Il folklore italiano mi sembra peraltro troppo casareccio e modesto per ambientarvi storie stile Conan il Barbaro, la nostra è la terra della civiltà e se uno ha bisogno di feroci guerrieri che mozzano teste e firmano facendo una X, si troverà sicuramente meglio con i miti germanici, vichinghi, e via dicendo.
Insomma vi invito a leggere quel post se non lo avete fatto. Ok? Tra l'altro intuirete perché non mi è particolarmente piaciuto Zeferina, seconda opera pubblicata di Riccardo Coltri. Questo libro si è voluto presentare come "il Fantasy del Regno d'Italia" e nella prima edizione aveva tanto di bandiera sabauda in copertina: ero molto incuriosito e dopo averlo letto devo dire che lo sforzo di ricerca sicuramente è encomiabile, sebbene non mi sia chiaro perché tantissimo del materiale è poi in verità di provenienza direttamente o indirettamente germanica (sia perché la storia ci porta in una terra di confine, sia perché il folklore dei Cimbri influenza il libro, gente che vive sicuramente in Italia da un pezzo ma che ha una chiara origine d'oltralpe). Tuttavia il risultato finale non mi ha entusiasmato e un po' me lo aspettavo, vista la difficoltà di creare toni epici con il nostro folklore di fronte all'ingombrante presenza della nostra storia.
Ad ogni modo ritengo che l'ambientazione (e qualsiasi discorso culturale sottostante) sia necessariamente funzionale alla qualità narrativa, perciò anziché perdermi in diatribe sul Fantasy Mediterraneo cercherò di dare una valutazione sul libro.
La storia di Zeferina parte dalla caccia che tutte le genti fatate stanno conducendo per impadronirsi del suo bambino, un esserino apparentemente deforme, probabilmente fatato anch'esso, che sarebbe la realizzazione di antichissime profezie.
Zeferina è una trovatella, allevata da una strega e strega dilettante lei stessa. Si batte ostinatamente e con coraggio per non cedere la sua creatura e coltiva la speranza di trovare lidi più accoglienti per condurre una vita meno stentata.
Attraverso la storia di un altro personaggio, Nero, seguiamo le azioni di tribù, regni, sciamani e fazioni varie che stanno per sfidarsi in una specie di Ragnarok in versione ridotta. Si tratta di culti antichi, popolazioni mitiche, seguaci di riti quasi dimenticati che si risvegliano per questo evento irripetibile. La loro esistenza stessa nel diciannovesimo secolo, oltre al fatto che si muovano e combattano in territorio italiano come se niente fosse, penso possa mettere a dura prova anche il lettore meglio disposto alla "sospensione dell'incredulità". Tanto più quando si affiancano ai travagli di Zeferina e alla sua vita di povertà, alla speranza di andare in Merica (America) a rifarsi un futuro, e altri simili dettagli di vita amara e stentata pesantemente veristici, stile Giovanni Verga.
Quanto allo stile ho trovato belle alcune descrizioni ma pesanti certi dialoghi spezzettati e frantumati (iperrealistici, direi). In una lunga parte centrale del libro è difficile capire cosa sta succedendo, a meno di tornare indietro e ripensare attentamente i capitoli precedenti per studiarne il significato, ammesso di volerlo fare: l'autore non è affatto sconclusionato, però io a un certo punto ho smesso di stare al suo gioco: perché la fatica di comprenderlo non mi dava abbastanza soddisfazione.
Non voglio dare un'impressione completamente negativa del libro, comunque. Se il personaggio di Nero m'è parso poco soddisfacente, confuso e poco comprensibile nelle motivazioni, quello di Zeferina è ben riuscito e avvincente e riesce a trascinare il lettore nella sua lotta generosa e instancabile.
Non so quanto le mie impressioni possano valere per spingere un potenziale acquirente a comprare o non comprare il libro. In buona parte le mie critiche toccano temi su cui ho dei punti di vista abbastanza consolidati e discordanti con il trattamento della materia da parte dell'autore (con cui peraltro non ho beghe di amicizia o inimicizia, o faide sanguinose nel meglio stile del fantastico italiano). Perciò Zeferina non mi ha preso, ma è un discorso in buona parte personale.
La difficoltà di lettura in alcune parti mi pare un dato più oggettivo ma in effetti può essere influenzata dal mio scarso coinvolgimento, come io ho trovato superflui certi virtuosismi un altro potrebbe rimanerne estasiato. Se non vi va di condividere il mio punto di vista per capire il mio giudizio (e sapere se accettarlo o meno), la strada è solo quella di cercare altre recensioni o comprarvi Zeferina e crearvi la vostra opinione.
Qua sotto il link per andare alla pagina di aNobii riguardante questo libro.
Zeferina
lunedì 19 ottobre 2009
A Game of Thrones
Il gioco ispirato alla saga di George Martin è uscito già da qualche anno per la Fantasy Flight; ha visto due successive espansioni che hanno permesso di aggiungere nuove regole e più partecipanti alla partita. Un successo indubbio questo A Game of Thrones, un gioco a zone con qualche regola originale che snellisce le procedure e qualche reminiscenza antica, che richiama antenati famosi nella dinastia dei giochi da tavolo di successo.
La mappa raffigura il mondo immaginario di Martin, compreso il misterioso nord da cui partono le terribili incursioni dei Wildling. Le pedine, in legno, rappresentano fanteria, cavalleria, armi da assedio e navi (il potere navale gioca un ruolo non trascurabile). Nelle varie zone possono esserci castelli (utili per il reclutamento di armate), simboli di potere (corone) o potenziale economico (botti). Una delle astuzie di questo gioco è che, sebbene ci siano considerazioni logistiche di cui tenere conto e un gioco politico per l'assegnazione del Trono di Ferro e di altre aree di influenza, non c'è una scadenza fissa in cui tenere queste fasi, il che rende molto meno noioso e prevedibile lo svolgersi del turno. E' per mezzo di alcune carte speciali che si svolgono le fasi logistiche e politiche.
La diplomazia ha molta importanza in A Game of Thrones (e qui viene in mente la parentela con l'antichissimo Diplomacy) perché l'esecuzione degli ordini (che vengono dati alle truppe per mezzo di pedine capovolte, svelate da tutti contemporaneamente) porta un elemento essenziale: l'appoggio delle unità (o flotte) alle azioni difensive o offensive delle unità adiacenti, o il loro tentativo di interferire (usando i raid) con le unità altrui per impedire il loro ruolo di appoggio. In pratica quello che può sembrare un attacco ben congegnato fallisce spesso e volentieri perché il nemico (e magari anche qualche neutrale che pensavamo fuori dalla contesa) ci mette lo zampino.
Quanto agli incursori del nord, si segue la falsariga di altri giochi che pur essendo competitivi hanno un elemento di collaborazione: i giocatori sono chiamati a resistere tutti assieme e tutti sono penalizzati se non respingono gli assalti (gestiti in maniera astratta).
Non si tirano dadi per risolvere il combattimento. Oltre al potenziale militare, che si computa con il complesso sistema di attacchi, raid e appoggi che ho descritto prima, si ha una variante segreta ma non casuale: il leader.
Ciascun giocatore ha diverse carte che rappresentano i suoi comandanti (sono ispirati ai personaggi dei libri di George Martin). Le loro doti sono: la quantità di punti che aggiungono alle forze in campo, il possibile "bonus" di danni inflitti se si vince (o salvati se si perde), e varie capacità personali che possono avere un effetto molto sorprendente. La tentazione di "giocarsi" i leader migliori fin da subito è forte, ma bisogna ricordare che il piccolo mazzo va terminato, prima di essere giocato di nuovo, quindi anche i peggiori comandanti devono avere la loro giornata ed è indispensabile sapersi giocar bene (è proprio il caso di dirlo) le proprie carte.
Sistema di gioco accattivante e con qualche pizzico di novità; per me, che non ho mai amato Diplomacy, l'influenza del gioco di appoggi e controappoggi prima della battaglia è un po' fastidiosa (e apre la strada ai più infami tradimenti!), ma l'idea generale che ne ho ricavato è di un misto valido e innovativo di elementi di gioco tradizionali e originali. Nelle mie partite ci si trovava spesso ad incontrare subito il nemico, e generalmente ne risultava un gioco di assalti e ritirate dove ogni tanto si perdeva una regione per poi riguadagnarne un'altra. C'è sempre stato chi riusciva a scardinare la difesa di un altro giocatore a proprio vantaggio, diventando il protagonista della partita, ma c'era anche una frequente sensazione di essere incastrati in situazioni senza sblocco. Riflettendoci con gli altri giocatori ho lamentato gli scarsi spazi di manovra (c'è poco terreno "libero" da conquistare nelle partite a molti giocatori), ma onestamente non ho potuto verificare se, giocando in pochi, le cose cambino in maniera significativa. Non apprezzerei comunque l'eventualità che ad alcuni venga data la possibilità di espandersi, e ad altri no.
Credo di averci messo poca sottigliezza e attenzione, nelle mie scarse partite: ovvero, avendo sfruttato poco il potenziale diplomatico del gioco, che è una componente essenziale, mi sono intestardito nel ruolo militare che non basta da solo a risolvere le situazioni. In effetti ricordo qualche grande successo, però di breve durata.
In altre parole, questo è un gioco solo in apparenza semplice, e non avendolo ancora esplorato con la calma e la profondità necessarie, trattengo le critiche e mi limito a dire che l'ho giocato abbastanza da capire che è interessante ma non a sufficienza per godermelo pienamente. Per gli amanti dei giochi da tavolo è senz'altro degno di sperimentazione; accessibile anche al neofita ben motivato.
Se volete vedere foto della mappa e dei pezzi migliori delle mie: eccovi la pagina di Boardgamegeek su A Game of Thrones
mercoledì 14 ottobre 2009
Una grana per Stephanie Meyer
Questa probabilmente la sapete già. L'autrice di Twilight (che abbiamo avuto il piacere di vedere per tre secondi e mezzo anche nell'omonimo film) è chiamata in causa da un'altra scrittrice con l'accusa di aver copiato (o tratto pesantemente ispirazione) da alcune parti del suo libro The Nocturne. L'opera di Stephanie Meyer in questione non è lo stesso Twilight ma Breaking Dawn, il quarto libro della serie.
L'accusa parte dalla giovane Jordan Scott, che avrebbe scritto il suo libro dai 15 ai 18 anni, pubblicandolo nel 2006 con Barnes and Noble in 5.000 copie tutte andate vendute. Insomma, una baby-autrice. Alla faccia di chi pensava che sta scalogna ci fosse solo da noi.
Breaking Dawn è stato pubblicato nel 2008 (i precedenti libri della serie sono comparsi tra il 2005 e il 2007). Secondo l'accusa della signorina Scott, ora ventunenne, Breaking Dawn è diverso dagli altri libri della serie, e questo perché avrebbe ricevuto l'influenza stilistica del suo Nocturne, in dialogo, trama e personaggi rappresentati. Chi ha letto le parti incriminate riferisce di situazioni e dialoghi molto simili, per quanto la Meyer abbia detto di non aver mai letto The Nocturne.
La giovane miracolosa scrittrice, oltraggiata dal saccheggio del proprio patrimonio intellettuale, ha intimato a Stephanie Meyer di cessare la pubblicazione di Breaking Dawn. Chi lo avrebbe mai detto, la Meyer se n'è fregata. Pertanto la faccenda sta finendo in tribunale.
Le mie considerazioni in merito:
1) Se ha dovuto davvero copiare da una che ha pubblicato a 18 anni, il livello medio della serie non è aumentato molto, a partire da Twilight.
2) Forse quando ci si limita a rimescolare i soliti quattro elementi in croce che fanno la moda di turno, certi inconvenienti sono inevitabili anche senza che nessuno abbia voluto copiare. Un po' come se si fossero mischiati gli ingranaggi che scrivevano i romanzetti sconci per i prolet in 1984 di Orwell...
3) Comunque intentare una causa contro qualcuno di più celebre può sempre essere uno stratagemma promozionale... Se poi si ha ragione, ci scappano anche dei bei soldi. Sarà vero che Michael Jackson ha voluto copiare Al Bano? (pensate un po', Al Bano Carrisi...). Chi lo sa, ma qualche milione di dollari alla fine ha dovuto darglielo...
4) Se il primo libro della Meyer è uscito nel 2005 e quello della Scott nel 2006, non è che la Meyer potrebbe invece accusare la Scott di aver scopiazzato le sue tematiche?
5) In attesa di vedere come finisce questa storia, facciamoci due risate.
L'accusa parte dalla giovane Jordan Scott, che avrebbe scritto il suo libro dai 15 ai 18 anni, pubblicandolo nel 2006 con Barnes and Noble in 5.000 copie tutte andate vendute. Insomma, una baby-autrice. Alla faccia di chi pensava che sta scalogna ci fosse solo da noi.
Breaking Dawn è stato pubblicato nel 2008 (i precedenti libri della serie sono comparsi tra il 2005 e il 2007). Secondo l'accusa della signorina Scott, ora ventunenne, Breaking Dawn è diverso dagli altri libri della serie, e questo perché avrebbe ricevuto l'influenza stilistica del suo Nocturne, in dialogo, trama e personaggi rappresentati. Chi ha letto le parti incriminate riferisce di situazioni e dialoghi molto simili, per quanto la Meyer abbia detto di non aver mai letto The Nocturne.
La giovane miracolosa scrittrice, oltraggiata dal saccheggio del proprio patrimonio intellettuale, ha intimato a Stephanie Meyer di cessare la pubblicazione di Breaking Dawn. Chi lo avrebbe mai detto, la Meyer se n'è fregata. Pertanto la faccenda sta finendo in tribunale.
Le mie considerazioni in merito:
1) Se ha dovuto davvero copiare da una che ha pubblicato a 18 anni, il livello medio della serie non è aumentato molto, a partire da Twilight.
2) Forse quando ci si limita a rimescolare i soliti quattro elementi in croce che fanno la moda di turno, certi inconvenienti sono inevitabili anche senza che nessuno abbia voluto copiare. Un po' come se si fossero mischiati gli ingranaggi che scrivevano i romanzetti sconci per i prolet in 1984 di Orwell...
3) Comunque intentare una causa contro qualcuno di più celebre può sempre essere uno stratagemma promozionale... Se poi si ha ragione, ci scappano anche dei bei soldi. Sarà vero che Michael Jackson ha voluto copiare Al Bano? (pensate un po', Al Bano Carrisi...). Chi lo sa, ma qualche milione di dollari alla fine ha dovuto darglielo...
4) Se il primo libro della Meyer è uscito nel 2005 e quello della Scott nel 2006, non è che la Meyer potrebbe invece accusare la Scott di aver scopiazzato le sue tematiche?
5) In attesa di vedere come finisce questa storia, facciamoci due risate.
domenica 11 ottobre 2009
Watchmen
Sempre un po' sospettoso verso i supereroi yankee, mi sono alla fine deciso a vedere questo film. Watchmen è tratto da un celeberrimo fumetto e il dibattito spesso gira intorno al dubbio se il regista (Zack Snyder) abbia seguito con sufficiente rispetto e fedeltà l'opera di Alan Moore e Dave Gibbons. Non ho letto il fumetto perciò posso risparmiarmi l'assillo di valutare questo aspetto; mi limito a dire che il film, visto senza pietre di paragoni precedenti, è davvero bello: come il famoso Cavaliere Oscuro di Christopher Nolan ha il pregio di essere un film fantastico ma strettamente compenetrato con la realtà, in questo caso una realtà alternativa. Un po' di sforzo in più per crederci, ma molto meglio di quegli scenari vuoti in cui si muovevano i primi eroi in calzamaglia. Comunque la presentazione dell'ambientazione è davvero convincente e credibile. Watchmen ha dalla sua inoltre molte scene accattivanti per scenari e colori, e un'atmosfera cupamente meditativa in una storia che abbraccia diversi decenni, in cui gli eroi in maschera si rivelano fragili e vulnerabili: soffrono e muoiono, vengono sostituiti da altri eroi più giovani, e infine sono costretti all'inattività dal governo.
Sviluppata razionalmente la premessa di una realtà diversa: l'intervento di un eroe "onnipotente," il Dottor Manhattan, vince la guerra del Vietnam per gli USA e mette nell'angolo l'URSS, ma lo scontro nucleare diventa sempre più probabile con la prospettiva di un cataclisma fatale all'umanità.
Da qui le azioni dei nostri eroi, intenzionati in modi diversi a intervenire, spinti dall'uccisione (all'inizio del film) di uno di loro. Quello che trovo accattivante in Watchmen è l'uso di una trama piuttosto complessa e intelligente, la coralità dell'azione tra diversi personaggi gestita senza generare confusione, l'ambiguità morale di tutte le decisioni non importa quanto ben intenzionate (tema fondamentale del film, che raggiunge l'apice nel finale), certi momenti di opprimente, cupa tristezza e malinconia, l'atmosfera da giorno del giudizio.
C'è magari anche qualche magagna ma sopportabile. Ricco e avvincente, Watchmen ha tutta la potenza del meglio riuscito cinema americano. Devo dire di averlo trovato anche più bello di quanto mi aspettassi e forse superiore all'ultimo Batman, se vogliamo fare un confronto all'interno di questo genere. Ma lo consiglio anche a chi, di solito, dei supereroi non ne vuol proprio sapere.
Il Dr Manhattan, nella sua serenità filosofica, distribuisce democraticamente la morte ai Vietcong
Sviluppata razionalmente la premessa di una realtà diversa: l'intervento di un eroe "onnipotente," il Dottor Manhattan, vince la guerra del Vietnam per gli USA e mette nell'angolo l'URSS, ma lo scontro nucleare diventa sempre più probabile con la prospettiva di un cataclisma fatale all'umanità.
Da qui le azioni dei nostri eroi, intenzionati in modi diversi a intervenire, spinti dall'uccisione (all'inizio del film) di uno di loro. Quello che trovo accattivante in Watchmen è l'uso di una trama piuttosto complessa e intelligente, la coralità dell'azione tra diversi personaggi gestita senza generare confusione, l'ambiguità morale di tutte le decisioni non importa quanto ben intenzionate (tema fondamentale del film, che raggiunge l'apice nel finale), certi momenti di opprimente, cupa tristezza e malinconia, l'atmosfera da giorno del giudizio.
C'è magari anche qualche magagna ma sopportabile. Ricco e avvincente, Watchmen ha tutta la potenza del meglio riuscito cinema americano. Devo dire di averlo trovato anche più bello di quanto mi aspettassi e forse superiore all'ultimo Batman, se vogliamo fare un confronto all'interno di questo genere. Ma lo consiglio anche a chi, di solito, dei supereroi non ne vuol proprio sapere.
martedì 6 ottobre 2009
Libri come MP3?
Ho già scritto qui cosa ne penso dei lettori di ebook e dell'annunciata rivoluzione digitale che potrebbe portare il libro cartaceo a crollare da mezzo dominante della lettura a preferenza retrograda di uno zoccolo duro. L'argomento merita qualche aggiornamento.
A conferma che il processo di digitalizzazione della lettura non impiegherà poco tempo è venuto un articolo sui giornali di pochi giorni fa riguardo agli studenti che restituivano i lettori Kindle avuti in prova da Amazon, affermando che non è possibile usare il lettore di ebook come mezzo per studiare.
Posso ben crederci. Spesso i testi elettronici non hanno il numero di pagina e anche quando ce l'hanno il livello di zoom che stai usando può far sì che non sia sott'occhio. Il lettore ha le sue comodità: ti porta sempre all'ultima pagina che hai letto (e ti permette di mettere dei bookmark) ma la sensazione fisica del libro, che puoi guardare valutando "ad occhio" a che punto sei, che puoi sfogliare soffermandoti su qualche parola per vedere se hai trovato il riferimento che vai cercando, è ancora ben lontana dal mondo simulato dei lettori. I libri di studio si sfogliano velocemente avanti e indietro, non sono romanzi che si leggono dal principio alla fine.
Questo non vuol dire che consideri i lettori un fallimento, tutt'altro. Ci tengo a precisare che dopo averne comprato uno non l'ho chiuso in un cassetto. Sia pure in maniera non frenetica, lo uso e lo trovo piacevole, ma non è privo di difetti. Comunque, sembra che la tecnologia ci consegnerà a breve delle novità PAZZESCHE. Sarà vero? Aspettiamo e vedremo.
Quanto alle possibilità che la digitalizzazione aprirebbe all'editoria, sono sempre più convinto che siano almeno in parte positive. Questo perché, dopo essermi fatto un'idea di come le case editrici scelgono quello che pubblicheranno, ritengo che più possibilità ci sono di arrivare ai lettori, meglio è. Saltando i nodi della distribuzione alle librerie e del conquistarsi lo spazio fisico negli scaffali, la digitalizzazione è assolutamente uno sviluppo positivo e, diciamo, "democratico." Resta la minaccia di essere travolti da libri di pessima qualità che non hanno avuto il minimo controllo editoriale, che metta quantomeno la forma a posto, ma visto come questo lavoro viene svolto male (anche da case famose) non lo vedo più come quel grande problema.
Una tendenza di oggi, in cui lo scrittore deve "crearsi un'immagine" e diventare veicolo promozionale di quello che ha scritto, potrebbe essere accentuata con la digitalizzazione.
Non ne sono contento, sebbene ritenga che sia sacrosanto che uno scrittore vada a tenere presentazioni del suo libro, ecc... (vedi il mio vecchio post).
Ma trovo molto peggio la prospettiva che il mercato venga travolto dalla diffusione di testi pirata.
Ok, detto questo, facciamo dei distinguo.
Distinguo n.1 L'imperialismo editoriale che alcuni distributori stanno cercando di mettere in piedi è anche peggio. Mi riferisco alle chicche come Kindle, di cui ho già accennato con antipatia nel post linkato all'inizio di questo articolo. Il ragionamento di Amazon è odioso. Vendo il mio lettore, creo il mio formato proprietario, ti vendo i libri con un semplice click e ti faccio un piccolo sconto. E guadagno un'enormità in più rispetto alla versione cartacea, mettendomi in tasca la maggior parte del risparmio che ottengo dandoti un libro digitale e non cartaceo. Lo considero scorretto e sconveniente per il cliente come vendere i film da scaricare con il DRM e altre scocciature simili. Credo però che questi sistemi non bloccheranno la pirateria, sia perché quelli che li escogitano sono troppo avidi, sia perché storicamente si è trovata sempre la contromossa che permette di aggirare le difese di un certo tipo.
Distinguo n.2 Quando un libro non è più in vendita sul mercato non vedo cosa dovrebbe fare uno che vuole leggerlo, se non cercare una versione digitale, quando sia disponibile.
Quello che rischia di succedere intorno all'editoria potrebbe essere non diverso da ciò che è successo alla musica.
Praticamente la vendita dei dischi rende poco o niente e bisogna inventarsi qualcosa di diverso (megaconcerti, ad esempio) per realizzare dei guadagni. C'è chi applaudiva alla diffusione degli MP3 come un mezzo che dava possibilità ai giovani artisti e a quelli che cercavano di emergere, ma io ho letto più di una volta le lamentele proprio di quelli che cercavano di farsi un nome, che si trovavano a non avere nemmeno quel modesto guadagno che la vendita di poche migliaia di CD poteva dar loro. Il grosso artista spinto dalla casa musicale può galleggiare su altre fonti di guadagno meglio di quello piccolo (anche se ovviamente la perdita di reddito ai discografici brucia parecchio). Comunque la prova del nove, sia pure in forma del tutto opinabile, potrebbe essere questa: facciamoci la domanda: dopo anni che la musica si diffonde praticamente gratis per mezzo del peer to peer, l'offerta che trovi in giro è migliorata? So bene che per chi segue una piccola nicchia ben precisa e se ne frega del resto la domanda non ha senso. Ma per i tanti come me che non hanno (più) tempo né voglia di sofisticare sui gusti musicali, la risposta è evidente. Non siamo tornati a vera musica di veri artisti, quella che ormai da trent'anni non c'è quasi più. Siamo ancora e più che mai travolti dalle costruzioni a tavolino delle case discografiche.
Il peer to peer non ha guidato nessuna rivoluzione, e se ha fatto danni per la grande casa discografica probabilmente ha reso una vera impresa per gli autori minori il procurarsi da vivere con la musica (se parliamo degli stranieri: gli italiani tranne una manciata di nomi non ce l'hanno mai fatta).
Trasferendo il discorso all'editoria (che già non gode di ottima salute), e immaginando che i formati digitali diventino facilmente oggetto di diffusione peer to peer, il mio timore è che gli effetti siano di completa distruzione del mercato.
Paradossalmente, visto che pochi in Italia vivono scrivendo, il danno potrebbe essere relativo; all'estero molto più serio. Per i successi del largo consumo non mi metto a piangere: se la prossima fatica della Rowling (o anche di Licia Troisi, perché no) guadagnasse un decimo di quello che guadagna di solito, sarebbe meglio. Certi fenomeni a volte ridicoli verrebbero ricondotti a dimensioni normali (nel senso che girandoci attorno meno quattrini, converrebbe meno pomparli con il marketing e la creazione di miti di cartapesta). Ma non ritengo giusto che uno scrittore minore o un esordiente non ci guadagni nemmeno quei cento o mille euro (ho scritto mille? mi sa che sono ottimista).
Come andranno le cose? I piccoli editori spazzati completamente via? I grandi ridimensionati, e però ancora lì?
Chi lo sa. Sarebbe una buona cosa? Penso di no.
Ma in un mercato di libri digitalizzati, senza più librerie e senza più distribuzione fisica, cosa sarebbe un piccolo editore? Solo uno che, con più o meno autorevolezza mette "la propria faccia" a sostegno di un autore.
Quale differenza tra un autore che pubblica con un editore del genere e uno scrittore che disperde il suo lavoro nell'enorme nulla di mercati stile lulu.com?
Ultimissima considerazione: certe preoccupazioni magari sono solo inutili. Succederà quello che deve succedere, insomma, e qualche bel libro lo troveremo sempre.
Non è mica detto che ci debba essere un'industria che vende libri per raccogliere introiti. C'è stato un passato in cui le arti erano sostenute da pochi ricchi mecenati che sovvenzionavano generosamente gli artisti.
Vedo già nel mondo anglosassone tanti che, per il fatto di produrre materiale del genere più svariato (un sistema di GDR pubblicato su un sito internet, informazioni su questo o quell'argomento, un bel blog eccetera) provano a farsi ricompensare con un bel bottone "Donate" e un conto Paypal che riceve le offerte di chi vuole premiarli con qualche soldino.
Noi italiani siamo un po' pidocchiosi su queste cose, ma chi lo sa, questi sistemi potrebbero un bel giorno affermarsi anche da noi. Così gli autori pur non potendo imporre il pagamento dei loro libri potrebbero ricevere il contributo di tanti piccoli donatori, mecenati da qualche euro alla volta.
Ma ovviamente questo è il ragionamento di uno che, pur aspirando a pubblicare, si guadagna da vivere in un altro modo.
A conferma che il processo di digitalizzazione della lettura non impiegherà poco tempo è venuto un articolo sui giornali di pochi giorni fa riguardo agli studenti che restituivano i lettori Kindle avuti in prova da Amazon, affermando che non è possibile usare il lettore di ebook come mezzo per studiare.
Posso ben crederci. Spesso i testi elettronici non hanno il numero di pagina e anche quando ce l'hanno il livello di zoom che stai usando può far sì che non sia sott'occhio. Il lettore ha le sue comodità: ti porta sempre all'ultima pagina che hai letto (e ti permette di mettere dei bookmark) ma la sensazione fisica del libro, che puoi guardare valutando "ad occhio" a che punto sei, che puoi sfogliare soffermandoti su qualche parola per vedere se hai trovato il riferimento che vai cercando, è ancora ben lontana dal mondo simulato dei lettori. I libri di studio si sfogliano velocemente avanti e indietro, non sono romanzi che si leggono dal principio alla fine.
Questo non vuol dire che consideri i lettori un fallimento, tutt'altro. Ci tengo a precisare che dopo averne comprato uno non l'ho chiuso in un cassetto. Sia pure in maniera non frenetica, lo uso e lo trovo piacevole, ma non è privo di difetti. Comunque, sembra che la tecnologia ci consegnerà a breve delle novità PAZZESCHE. Sarà vero? Aspettiamo e vedremo.
Quanto alle possibilità che la digitalizzazione aprirebbe all'editoria, sono sempre più convinto che siano almeno in parte positive. Questo perché, dopo essermi fatto un'idea di come le case editrici scelgono quello che pubblicheranno, ritengo che più possibilità ci sono di arrivare ai lettori, meglio è. Saltando i nodi della distribuzione alle librerie e del conquistarsi lo spazio fisico negli scaffali, la digitalizzazione è assolutamente uno sviluppo positivo e, diciamo, "democratico." Resta la minaccia di essere travolti da libri di pessima qualità che non hanno avuto il minimo controllo editoriale, che metta quantomeno la forma a posto, ma visto come questo lavoro viene svolto male (anche da case famose) non lo vedo più come quel grande problema.
Una tendenza di oggi, in cui lo scrittore deve "crearsi un'immagine" e diventare veicolo promozionale di quello che ha scritto, potrebbe essere accentuata con la digitalizzazione.
Non ne sono contento, sebbene ritenga che sia sacrosanto che uno scrittore vada a tenere presentazioni del suo libro, ecc... (vedi il mio vecchio post).
Ma trovo molto peggio la prospettiva che il mercato venga travolto dalla diffusione di testi pirata.
Ok, detto questo, facciamo dei distinguo.
Distinguo n.1 L'imperialismo editoriale che alcuni distributori stanno cercando di mettere in piedi è anche peggio. Mi riferisco alle chicche come Kindle, di cui ho già accennato con antipatia nel post linkato all'inizio di questo articolo. Il ragionamento di Amazon è odioso. Vendo il mio lettore, creo il mio formato proprietario, ti vendo i libri con un semplice click e ti faccio un piccolo sconto. E guadagno un'enormità in più rispetto alla versione cartacea, mettendomi in tasca la maggior parte del risparmio che ottengo dandoti un libro digitale e non cartaceo. Lo considero scorretto e sconveniente per il cliente come vendere i film da scaricare con il DRM e altre scocciature simili. Credo però che questi sistemi non bloccheranno la pirateria, sia perché quelli che li escogitano sono troppo avidi, sia perché storicamente si è trovata sempre la contromossa che permette di aggirare le difese di un certo tipo.
Distinguo n.2 Quando un libro non è più in vendita sul mercato non vedo cosa dovrebbe fare uno che vuole leggerlo, se non cercare una versione digitale, quando sia disponibile.
Quello che rischia di succedere intorno all'editoria potrebbe essere non diverso da ciò che è successo alla musica.
Praticamente la vendita dei dischi rende poco o niente e bisogna inventarsi qualcosa di diverso (megaconcerti, ad esempio) per realizzare dei guadagni. C'è chi applaudiva alla diffusione degli MP3 come un mezzo che dava possibilità ai giovani artisti e a quelli che cercavano di emergere, ma io ho letto più di una volta le lamentele proprio di quelli che cercavano di farsi un nome, che si trovavano a non avere nemmeno quel modesto guadagno che la vendita di poche migliaia di CD poteva dar loro. Il grosso artista spinto dalla casa musicale può galleggiare su altre fonti di guadagno meglio di quello piccolo (anche se ovviamente la perdita di reddito ai discografici brucia parecchio). Comunque la prova del nove, sia pure in forma del tutto opinabile, potrebbe essere questa: facciamoci la domanda: dopo anni che la musica si diffonde praticamente gratis per mezzo del peer to peer, l'offerta che trovi in giro è migliorata? So bene che per chi segue una piccola nicchia ben precisa e se ne frega del resto la domanda non ha senso. Ma per i tanti come me che non hanno (più) tempo né voglia di sofisticare sui gusti musicali, la risposta è evidente. Non siamo tornati a vera musica di veri artisti, quella che ormai da trent'anni non c'è quasi più. Siamo ancora e più che mai travolti dalle costruzioni a tavolino delle case discografiche.
Il peer to peer non ha guidato nessuna rivoluzione, e se ha fatto danni per la grande casa discografica probabilmente ha reso una vera impresa per gli autori minori il procurarsi da vivere con la musica (se parliamo degli stranieri: gli italiani tranne una manciata di nomi non ce l'hanno mai fatta).
Trasferendo il discorso all'editoria (che già non gode di ottima salute), e immaginando che i formati digitali diventino facilmente oggetto di diffusione peer to peer, il mio timore è che gli effetti siano di completa distruzione del mercato.
Paradossalmente, visto che pochi in Italia vivono scrivendo, il danno potrebbe essere relativo; all'estero molto più serio. Per i successi del largo consumo non mi metto a piangere: se la prossima fatica della Rowling (o anche di Licia Troisi, perché no) guadagnasse un decimo di quello che guadagna di solito, sarebbe meglio. Certi fenomeni a volte ridicoli verrebbero ricondotti a dimensioni normali (nel senso che girandoci attorno meno quattrini, converrebbe meno pomparli con il marketing e la creazione di miti di cartapesta). Ma non ritengo giusto che uno scrittore minore o un esordiente non ci guadagni nemmeno quei cento o mille euro (ho scritto mille? mi sa che sono ottimista).
Come andranno le cose? I piccoli editori spazzati completamente via? I grandi ridimensionati, e però ancora lì?
Chi lo sa. Sarebbe una buona cosa? Penso di no.
Ma in un mercato di libri digitalizzati, senza più librerie e senza più distribuzione fisica, cosa sarebbe un piccolo editore? Solo uno che, con più o meno autorevolezza mette "la propria faccia" a sostegno di un autore.
Quale differenza tra un autore che pubblica con un editore del genere e uno scrittore che disperde il suo lavoro nell'enorme nulla di mercati stile lulu.com?
Ultimissima considerazione: certe preoccupazioni magari sono solo inutili. Succederà quello che deve succedere, insomma, e qualche bel libro lo troveremo sempre.
Non è mica detto che ci debba essere un'industria che vende libri per raccogliere introiti. C'è stato un passato in cui le arti erano sostenute da pochi ricchi mecenati che sovvenzionavano generosamente gli artisti.
Vedo già nel mondo anglosassone tanti che, per il fatto di produrre materiale del genere più svariato (un sistema di GDR pubblicato su un sito internet, informazioni su questo o quell'argomento, un bel blog eccetera) provano a farsi ricompensare con un bel bottone "Donate" e un conto Paypal che riceve le offerte di chi vuole premiarli con qualche soldino.
Noi italiani siamo un po' pidocchiosi su queste cose, ma chi lo sa, questi sistemi potrebbero un bel giorno affermarsi anche da noi. Così gli autori pur non potendo imporre il pagamento dei loro libri potrebbero ricevere il contributo di tanti piccoli donatori, mecenati da qualche euro alla volta.
Ma ovviamente questo è il ragionamento di uno che, pur aspirando a pubblicare, si guadagna da vivere in un altro modo.
lunedì 5 ottobre 2009
District 9
Un film di fantascienza, questo District 9, che si è presentato con una campagna promozionale bizzarra (un po' come era avvenuto tanti anni fa per l'Esercito delle Dodici Scimmie). Vedendo gli autobus andare in giro per le vie con i cartelli "vietato ai non umani" sicuramente una certa curiosità rimane impressa. Il fatto che fosse prodotto da Peter Jackson, che non sarà magari un artista geniale ma è comunque un ottimo regista, mi ha definitivamente spinto ad andare a vederlo (il regista comunque è un certo Neill Blomkamp).
Argomento del film è l'arrivo sulla terra di una razza aliena che è costretta a rimanere ospite dell'umanità per un lungo periodo (un po' come in Alien Nation). Solo che questi alieni sono numerosi, violenti e stupidi e anziché insegnare all'umanità qualcosa della loro prodigiosa tecnologia finiscono in un ghetto. Mi è sembrata una forzatura sciocca, ma per spingere il pedale a fondo sull'idea, come se non avessimo capito, la scelta per questo ghetto è caduta sul Sudafrica (che la segregazione razziale ce la ricorda da vicino, visto il tipo di regime che ha avuto fino a qualche tempo fa). Giocando con il paradosso vediamo nei primi minuti del film (che sono stile documentario) le critiche seccate di molti neri che gli alieni non li vogliono, chiedono che vadano via ecc... anche se i cattivoni nel seguito del film, i soliti mercenari assassini che fanno i lavori sporchi (proprio come in The Island che ho appena visto), sono tutti bianchi (con una eccezione o due, se ho visto bene).
Non si capisce peraltro se il film vuole fare della satira sul razzismo o saltare il fosso e praticarlo in maniera (poco) camuffata, visto che altri cattivoni del ghetto sono una grossa banda di mafiosi nigeriani con tanto di prostitute al seguito: classici stereotipi di "negracci da ghetto" che fanno coppia con i "gamberoni" (ovvero gli alieni) nel ruolo della spazzatura da rinchiudere e isolare. Per inciso, la Nigeria ha protestato.
Sempre riguardo al razzismo, al protagonista del film accadrà qualcosa che sarà la classica giustizia poetica per il suo atteggiamento verso i "gamberoni".
Ma il vero problema di District 9 è che calpesta la logica ripetutamente e spietatamente. Non ha coerenza interna. Mi si dirà che qualche vaccata per rendere un film più spettacolare ci può stare, ma qui si supera la soglia critica.
Se mi posso permettere qualche spoiler, abbiamo un funzionario evidentemente mediocre (Wikus, interpretato da un attore praticamente sconosciuto) che gestisce il trasferimento del ghetto verso un luogo maggiormente isolato, messo in un ruolo importante solo perché è un raccomandato. E' un fessacchiotto, ma poi chissà perché si comporterà come un soldato dei commando e recupererà un oggetto che tutte le nazioni del mondo si sarebbero svenate per avere. E scappa per tornare nel District 9 senza essere beccato dai mercenari paramilitari o fermato dalla sorveglianza.
Wikus, che è stato ormai abbandonato da tutti per un motivo che non vi dico, usa un cellulare nel tentativo disperato di ricevere assistenza da amici e parenti: ma i cattivi useranno questa traccia per individuare il fuggitivo solo quando farà comodo alla trama del film.
Gli alieni hanno con sé un sacco di armi ma gli umani non possono usarle perché attivate biologicamente. Motivo per cui la possibilità di impadronirsi di questa tecnologia giocherà un ruolo importante nel film. Ma se queste sono le premesse il fatto che sembrino dei semplici fucili mitragliatori, giusto un po' strani, mi ha fatto sorridere. E poi, vi prego, qualcuno mi spieghi perché i "gamberoni" subiscono tante prepotenze senza reagire, se è vero che sono impulsivi e stupidi e hanno tutte queste armi così potenti.
Dal momento che Wikus stava notificando lo sfratto ai "gamberoni" c'è anche da chiedersi come mai nel seguito del film non succede nulla (il termine era 24 ore) e ci si ricordi del trasferimento a un altro distretto solo nel finale. Ok, questo in fondo è un dettaglio da niente, soprattutto se confrontato con altre illogicità.
Molto bizzarro il fatto che la coppia formata da Wikus e Christopher, l'alieno che è diventato suo alleato, non venga aiutata dagli altri alieni nel corso di una lunga battaglia con i paramilitari: dopo tutto si trovano in un ghetto che è strapieno di "gamberoni" e Christopher sta lottando per salvare tutti (già, perché lo fa senza aver l'aiuto di nessuno dei suoi?). Forse c'era bisogno di una scena madre con loro due contro tutti? Il bello è che gli alieni alla fine ricompaiono, per far fuori il cattivo e salvare Wikus in extremis. Dulcis in fundo, se la tecnologia e la biologia aliena sono così interessanti da indurre gli scienziati a fare atroci esperimenti sui gamberoni e addirittura sul povero Wikus, come mai l'astronave se ne rimane sospesa sopra Johannesburg per 20 anni senza che nessuno vada a studiarsela un attimino più a fondo? Mi fermo qui per non sparare troppo sulla Croce Rossa.
Fine Spoiler
Sinceramente la presa di posizione moralistica del film non mi è sembrata né particolarmente ben riuscita, né originale. Espressa con intensità ma superficiale, direi (già che ci siamo mi metto a fare il razzista anch'io: forse può sembrar profonda a un americano?). E' chiaro che la fantascienza offre la possibilità di fare delle riflessioni sui "diversi," lo ha fatto in tante altre opere, non credo che questa diventerà una delle più memorabili. E la storia è molto povera quanto a verosimiglianza.
Rimane valido lo stile documentaristico della prima mezz'ora, e un look realistico e crudo cercato insistentemente dalla regia: l'ho trovato coinvolgente. Il seguito è un film d'azione per nulla entusiasmante, con una certa dose di sciocchezze, nello stile caro ai registi di oggi. Effetti speciali più che sufficienti, nonostante il film non sia costato tantissimo (per un film straniero di questo genere: ma si tratta comunque di una cifra che in Italia non si riuscirebbe a raccogliere tanto facilmente). Da Peter Jackson però mi aspettavo di meglio. Ho letto parecchi commenti entusiasti ma il mio giudizio verso questo film non è molto lusinghiero, anche se all'inizio mi aveva preso parecchio.
domenica 4 ottobre 2009
Outlander
Devo dire la verità, mi aspettavo che fosse un pessimo film, invece si fa vedere. Ispirato in qualche modo al poema epico Beowulf, invece di troll o draghi Outlander ci presenta un mostro venuto dallo spazio (assieme al protagonista del film, nientemeno), perciò nonostante sia in qualche modo affine al fantasy come immaginario, è in realtà un film di fantascienza.
Effetti speciali più che sufficienti, un budget corposo ma non enorme se confrontato con i grandi film di cassetta di questo genere, un attore (James Caviezel) non di primissima fila ma abbastanza famoso da essere di richiamo: tutto mi fa pensare che Outlander sia stato un tentativo di strappare il successo con un'interpretazione un po' insolita delle solite avventure di vichinghi e mostri: un bel film di serie B, tanto per dire. A dire il vero quel tipo di ambientazione a me piace parecchio, ed è stata ricreata piuttosto bene. Mi è piaciuto anche l'attore protagonista, e trovo che sia stato bravo anche Jack Huston, nei panni dell'impulsivo guerriero Wulfric, che fa nei confronti del protagonista la parte un po' del rivale e un po' dell'amico. E in generale tutti gli attori hanno fatto il loro dovere.
Trovo però che Caviezel, attore energico ma con un preponderante atteggiamento riflessivo e pensoso, non sia stato sfruttato al meglio. La premessa del suo viaggio, della presenza del Moorwen (il mostro) nell'astronave, e del naufragio sulla terra è spiegata in maniera sbrigativa e un po' ridicola. Altri dettagli riguardo alla questione dell'astronave e della tecnologia in mano al protagonista Kainan (Caviezel) li lascio da parte per non anticipare troppo. Diciamo che l'idea che è servita a introdurre un mostro diverso dal solito poteva essere usata creativamente anche per tirar su in qualche modo le sorti del film, e invece purtroppo lo relega al rango di popcorn movie.
Il mostro stesso, che avrebbe potuto essere un punto di forza del film, è malriuscito. Ci sono tantissime opinioni in giro riguardo al Moorwen: ricorda Alien, ricorda Predator... per me ha anche un po' del Balrog del Signore degli Anelli. La cosa più importante è che sa di già visto, prendendo a prestito qua e là molte delle sue caratteristiche.
L'introduzione di un capo tribù di un altro villaggio, che ha una faida in corso contro Wulfric, m'è sembrata un classico caso di troppa carne al fuoco: potrebbe essere interessante ma non c'è tempo per svilupparla bene, e ritarda lo scontro con il Moorwen fino a un momento un po' troppo avanzato del film.
Di fatto Outlander oltre ad avere diverse debolezze è un po' stancante verso il finale: troppo lungo. Potrei aggiungere che tra le varie fonti di ispirazione di questa pellicola secondo me c'è anche Il Tredicesimo Guerriero, per sottolineare un altra mancanza: non riesce ad avere la potenza epica di quel film. Però in fondo Outlander si fa vedere, a mio parere. E visto che lo considero un onesto film di non troppe pretese, m'è spiaciuto leggere che si sta avviando a essere un grosso fiasco commerciale.
giovedì 1 ottobre 2009
Botte da orbi nella Foresta di Sherwood
Per gli appassionati della leggenda di Robin Hood la Rio Grande Games ha prodotto un gioco facile e divertente che permette di calarsi per qualche ora nei panni di eroi che... rubano ai ricchi per dare ai poveri. Il nome è Sherwood Forest.
La struttura del gioco è imperniata effettivamente sulla rapina e sul furto: esiste un percorso dove si possono aspettare viandanti e carovane (in realtà solo due strade che si incrociano a un quadrivio, e quindi quattro diverse destinazioni fuori mappa). I giocatori formano delle squadre che devono aggredire con successo i viandanti (che sono a volte assai debolucci, ma capitano pure delle carovane cariche d'oro e dotate di una forte scorta). Purtroppo passa anche lo sceriffo, a volte, e sono dolori.
Ciò che si ottiene predando i malaugurati che passano sono tre tipi di premio: la fama, che praticamente corrisponde ai punti vittoria, il denaro (rappresentato da sacchi pieni di monete, un po' come nel deposito di Zio Paperone) e talvolta nuovi compagni che si aggiungono al gruppo.
Poiché Robin Hood non è rappresentato nel gioco in realtà i giocatori rappresentano delle bande che hanno preso il suo posto e, sia rivaleggiando che collaborando fra loro, cercano di ripeterne le gesta.
Prima di attaccare le carovane (e vedersela con lo sceriffo) i giocatori affrontano una fase di preparazione logistica inviando i loro uomini a visitare diversi edifici di un villaggio rappresentato simbolicamente in un quadrante del tabellone.
Impegnare gli uomini in queste operazioni ovviamente va a scapito della forza che si può schierare in agguato, perché tornano disponibili solo al prossimo giro, perciò è necessario bilanciare adeguatamente i propri sforzi. Nel villaggio i giocatori possono visitare la chiesa e donare denaro (si guadagnano punti vittoria), acquistare armi per affrontare con maggior potenziale i combattimenti (spendendo denaro), arruolare nuovi uomini nella propria banda (anche questo costa denaro) e infine interrogare i bene informati per scoprire quali sono gli itinerari dei viaggiatori della Foresta di Sherwood. Questo in pratica significa poter sbirciare una o più delle carte che verranno girate più tardi nel turno. Ciascuna di esse indica un percorso da seguire, una forza da sconfiggere, e i premi per gli eventuali vincitori. Le bande preparano gli agguati in precisi tratti di strada perciò possono non essere a tiro di qualche bersaglio succulento, o essere precedute da bande concorrenti che sono meglio posizionate. Notare che chi si mette in agguato può chiamare rinforzi (uomini delle bande rivali) promettendo in cambio una parte del bottino.
Mentre una carovana troppo forte per essere sconfitta passa senza far scattare l'agguato, lo sceriffo è più aggressivo e attacca le bande che sorprende al limitare della strada. Il combattimento è obbligatorio e i giocatori possono perdere degli uomini, però nessuna banda può essere spazzata via del tutto, e lo sceriffo potrebbe essere anche sconfitto (azione che arreca una grande fama a chi la compie). Quando tutte le carte di viaggiatori sono rivelate ed hanno percorso con alterne vicende la Foresta di Sherwood, si passa al turno seguente (ma se le carte dei viaggiatori sono finite si calcola la fama dei giocatori e si vede chi è il vincitore).
Pertanto, se mi avete seguito fino a qui, vi sarà chiaro che si tratta di un gioco assai semplice dove vengono mescolati elementi gestionali con qualche sbiadito ricordo di giochi di guerra. Il meccanismo di gioco è ben oliato, il turno scorre veloce, la partita non si prolunga troppo. Purtroppo nonostante esista l'elemento di informazione (o spionaggio) che dovrebbe, se giocato bene, eliminare qualche brutta sorpresa, successo o sconfitta derivano per una parte un po' troppo grande da fattori casuali, pertanto è difficile impostare una vera e propria strategia in questo gioco.
Giudizio finale: giochino di poco spessore, forse più adatto a partite in famiglia con bambini, zii e nonni. Detto questo, le meccaniche di gioco sono pensate abbastanza bene e i componenti sono graficamente accattivanti.