Uno dei tanti insegnamenti che questo spaventoso evento ci lascerà (sperando di dirgli addio il più presto possibile) è che ora sappiamo cosa si prova dovendo affrontare una pericolosa epidemia. Se domani avremo ancora voglia di leggere di apocalisse zombie o di pandemie, e di vederle sullo schermo, la gente avrà una pietra di paragone. Io, provando a indovinare, credo che se ne parlerà e scriverà parecchio.
Esisterà, certo, un momento in cui si vorrà lasciarsi questo disastro alle spalle, tornare alla vita di prima e alla spensieratezza, quando potremo dire che il virus sarà definitivamente sconfitto. Inevitabilmente, presto o tardi, se ne parlerà, si racconterà qualcuna delle tante dolorose storie. Storie personali, intime, ma anche storie corali. Storie di politicanti che hanno fallito, storie di eroi in camice bianco, storie di sistemi sociali sbagliati di cui avremo assaporato le terribili conseguenze. Chissà.
Continuerà ad avere successo la narrativa apocalittica? Forse vivremo a lungo ancora con le catastrofi immaginarie così come abbiamo vissuto con quella reale.
Ma da nessuna parte ho visto rappresentata la sensazione che stiamo provando dopo diversi giorni di quarantena. La sorda ansia, la minaccia di un nemico invisibile, la tua mortalità che ti tiene per mano, quei pensieri tristissimi, intrisi di preoccupazioni e paure, che sono te quando ti svegli la mattina e ti accompagnano per tutto il giorno, come la depressione. E non finisce, va avanti giorno dopo giorno, per tutta la durata dell'epidemia. Non sappiamo se siamo all'inizio o se siamo a metà strada. Sappiamo che se va male c'è da morire, forse malissimo. Comincia a darvi alla testa? Io mi sento a disagio, non lo posso negare.
Non ricordo nessuno sceneggiatore o scrittore che ne abbia parlato. Visto che i libri e il mondo dello spettacolo ci mostrano preferibilmente storie spettacolari o estreme, le vicende di sparuti gruppi di superstiti in un mondo vuoto dove si deve ripartire da zero, o le lotte contro orde di zombie. Storie in cui la società è distrutta o in agonia, i protagonisti sono di fronte alla tabula rasa di un mondo spietato.
Proprio così. A dire il vero riguardo all'apocalisse portata da una malattia posso dire di aver visto parecchi film che ne parlano, ma non ho letto molti libri. Posso dire però che da nessuna parte, libri, film, serie TV, ho visto narrare la sensazione di avere a che fare con un'epidemia e doverla sopportare, senza che per questo la civiltà stia terminando. Neri pensieri e oppressione li ho trovati nel film L'Ultimo Uomo sulla Terra, con Vincent Price, vecchio film in bianco e nero dove è Roma a offrire lo scenario (anche se i protagonisti sono anglosassoni) e dove vediamo il protagonista Neville ricordare l'agonia della moglie e vivere una quotidiana disperazione, mentre è assediato dai "vampiri." Il film è abbastanza fedele, sotto questo aspetto, al libro di Richard Matheson (Io Sono Leggenda).
A dire il vero, in Maggie (film indipendente con Arnold Schwarzenegger e Abigail Breslin) ho trovato molti elementi che ricordano le nostre sensazioni oggi. Nella mia recensione lo definivo un film pesantissimo, bello ma quasi inguardabile, troppo triste. Maggie in realtà è una metafora della malattia terminale, e di quello che fa a chi la subisce e ai parenti: la protagonista è destinata a diventare zombie, il processo è lungo, vede ancora gli amici, sta in famiglia, ma sa che tra un certo numero di settimane diventerà pericolosa per i propri cari, sarà un nemico da confinare o eliminare. E il film ci racconta come interagiscono le persone in questo contesto: straziante.
Anche in Autostrada Gialla, il romanzo che ho scritto assieme a Cristina Donati, quel tipo di sensazione è solo sfiorato. Non si tratta di una storia dove la civiltà è scomparsa: non ancora, diciamo. Ho trovato un'ambientazione già presente e aperta, con un suo sviluppo temporale che permetteva di scegliere (la Pandemia Gialla), abbiamo deciso di scrivere di un momento in cui lo stato ancora esiste e cerca di fare qualcosa, ma ormai tutto è al collasso. In un paio di scene ho cercato di descrivere lo sgomento di personaggi in fuga, profughi, senza doccia o aria condizionata o altre comodità, tra asfalto e caldo insopportabile. Dove si scopre che il denaro non serve a niente e un po' di benzina o medicine sono tutto.
Ma non potevo riuscire a descrivere quell'oppressione continua, perché ancora non l'avevo vissuta.
In un libro che ho letto (di storia, non di narrativa) si suppone addirittura che il tormento delle epidemie abbia guidato il popolo dell'Impero Romano lontano dal paganesimo, verso la religione cristiana, in cerca di un nuovo Dio a cui prostrarsi chiedendo scampo. Adesso ci credo un po' di più, a questa ipotesi.
Ora l'abbiamo vissuta, la pandemia. Dovremo provare a raccontarla.
E tra le tante cose non immaginate prima c'è il papa che pratica una importante cerimonia liturgica in una San Pietro deserta e piovosa. Lo dico da non credente: mi ha impressionato.
RispondiEliminaArticolo interessante. Un abbraccio.
RispondiEliminaGrazie per l'abbraccio virtuale, che ovviamente dobbiamo scambiarci con le tute anti contaminazione...
La scena del Papa è stata impressionante, è vero. Anch'io che certamente non sono un fan del personaggio mi sono guardato una galleria di foto dell'evento. Ricordiamoci comunque che la chiesa vende sceneggiate da 2.000 anni. E che, mentre i personaggi illustri o celebri fanno a gara per contribuire economicamente alla lotta contro la pandemia, la chiesa non scuce un ghello...
Per carità, non sto qui a elogiare la Chiesa a tutti i costi.
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RispondiEliminaComunque i grandi del mondo ci hanno fatto generalmente una figura barbina... I despoti che negano che stia succedendo qualcosa nei loro paesi, o non si fanno sentire (Russia?), altri che dicono con tranquillità che bisogna raggiungere l'immunità di gregge (WTF?) e poi si ammalano, Trump che oscilla tra fregarsene e intervenire alla grande (ma con i tweet), diversi paesi europei che reagiscono al rallentatore...
Il Papa è in buona compagnia.
Certi governanti stanno dimostrando, se ce ne fosse bisogno, come sono in realtà.
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RispondiEliminaCredo che i governi siano legati nelle reazioni ai desideri dei poteri che li esprimono e alle condizioni dei paesi.
Qualsiasi primo ministro o presidente che oggi si presenti sicuro di sé e rassicurante ottiene automaticamente un grande vantaggio in termini di popolarità (vedi il nostro presidente del consiglio, che ritengo un mediocre trasformista, e che ora sembra diventato il Churchill della situazione). Ma poi in realtà il denaro comanda. In alcuni paesi c'è quindi stata la grande tentazione del "freghiamocene" per non spendere soldi. Ma la pressione degli eventi è tale che non si può veramente ragionare così.
Più o meno tutti hanno in comune una cosa: le misure adottate tardi, quando la catastrofe è sotto gli occhi di tutti, mentre si sapeva fin dall'inizio che il virus si trasmette in maniera subdola, prima che i sintomi siano evidenti.
Già, è sempre una questione di soldi.
RispondiEliminaLa reazione tardiva la si poteva comprendere se si era la prima nazione colpita, come la Cina (vedere come hanno trattato chi ha scoperto il virus e dato l'allarme); dopo però non c'erano più scusanti.
RispondiEliminaI politici hanno reagito come la gente, incredula all'inizio, e poi pronta a fare i gavettoni a che esce di casa. Io non penso che i politici possano o debbano essere meglio della gente comune, ma dovrebbero avere scienziati che gli facciano capire come stanno le cose, e che ci vogliono precauzioni maggiori. E invece le misure arrivano sempre troppo tardi.