Glen Cook è un autore statunitense piuttosto prolifico e ormai un po' vecchiotto, eppure poco tradotto in Italia. Anzi, della sua opera principale nulla saprete se non ve la leggerete in inglese.
Sto parlando della Black Company, una compagnia di ventura antica e gloriosa, narrata in prima persona da un personaggio (Croaker) che ne è il medico e l'annalista, ovvero l'incaricato a scriverne la storia. Questo nel primo volume, ovviamente. Sono parecchi i tomi scritti sulle avventure di questa unità, io ho letto solo l'inizio. Sono stato spinto alla lettura dalla diceria che Steven Erikson (di cui ho letto il primo libro della serie Il Libro Malazan dei Caduti) si fosse pesantemente ispirato a Cook e che i suoi "Arsori di Ponti" fossero pesantemente indebitati con la Black Company. Ovviamente speravo anche di leggere un buon fantasy.
Andiamo con ordine. Alla domanda se Erikson abbia spiluccato le idee di Cook non risponderò con dure certezze ma secondo me la somiglianza di certe atmosfere è notevole e non può essere casuale. Debito probabile, quindi, se volete la mia opinione.
Per quanto riguarda il libro, sono molto combattuto. Un fantasy militare dove si descrivono situazioni da caserma, se vogliamo, ma si entra nel vivo di una maledetta battaglia soltanto verso la fine. I maghi qui sono l'equivalente di un soldato specialista, che so io, un esperto di esplosivi o un cecchino d'un esercito moderno, visti con una certa venerazione dagli altri militari ma in fondo uguali agli altri. Ho già detto parlando di Erikson (chissà se qualcuno dei miei sparuti lettori lo ricorda, eh eh!) che questo è lontanissimo dal mio modo d'intendere il magico in un fantasy, non sono bigotto sui miei gusti però mi annoia abbastanza. Soprattutto se i due maghi della Black Company fanno i buffoni in un rapporto di complicata amicizia che li porta a sfidarsi e beffeggiarsi di continuo, facendo uso anche delle proprie capacità magiche: insomma un intermezzo comico che ogni tanto viene a interrompere la narrazione. Ho così saltato delle pagine intere, a un certo punto. Per amore di verità devo aggiungere che ci sono anche personaggi con poteri magici di tutt'altro spessore a rimettere un po' in equilibrio la situazione e a creare un po' di "sense of wonder." Vedi sotto.
Atmosfere pesanti e darkeggianti, rovinate dal realismo e dalla modernità di certe situazioni e del linguaggio. Sembra proprio che l'autore non ce la faccia a immedesimarsi e immergersi in un mondo secondario. Una citazione delle tante che potrei fare: Goblin sounded like he was regressing toward childhood. Ovvero nella mia traduzione affretata: Goblin (che è un personaggio, e che era stato appena sottoposto a una violentissima emozione) parlava come se stesse regredendo all'infanzia. E va bene, forse siamo in una ambientazione che ha goduto dell'influenza di un equivalente del buon Freud e della sua psicanalisi, e quindi ne possiede la terminologia. Ma per me questo fraseggio (in compagnia di altri esempi simili) suona troppo moderno per un fantasy di spada e magia. A ognuno i suoi gusti, so che altri la vedono diversamente.
Aggiungiamo che ogni cinque minuti ci viene descritta una partita a carte dei protagonisti, e abbiamo (forse?) terminato l'elenco delle cose che mi hanno infastidito in questo libro.
L'idea di partenza era anche buona, comunque. Abbiamo una tiranna dagli incredibili poteri magici, The Lady, che ha fregato tutti, il marito che era il Dominatore (di nome e di fatto) di un grande impero, il popolo che si era ribellato e li aveva banditi entrambi, il mago che li aveva rievocati per carpirne i segreti ma aveva ottenuto solo il risultato di farli tornare liberi. C'è una congrega di aiutanti dai grandi poteri magici, i Taken, che altri non sono che avversari di Lady catturati e ricondizionati con feroci tormenti. Insomma proprio una cricca da impero del male, che lotta per mantenere il potere minacciato da una grande ribellione.
In questo grande bailamme la Black Company fa il suo mestiere: combatte per chi la paga, e difende i suoi pargoli (ovvero i soldatacci che la compongono) come una grande famiglia. Quindi non si fa troppi problemi per essersi schierata dalla parte di questi despoti orripilanti. Ma la situazione è molto più intricata di quello che sembra. I ribelli si fanno ammazzare come pivelli, si sacrificano, vengono sterminati, ma c'è anche qualche elemento che giocherà a loro favore...
Commento finale: questo libro ha delle buone idee, ma per vari aspetti non è il tipo di fantasy che mi piace. Non credo che leggerò il resto della saga, il mio voto finale è il classico risicato sei meno.
venerdì 30 novembre 2012
giovedì 29 novembre 2012
Intelligenza collettiva?
La sento molto spesso quest'idea. Con il diffondersi della rete e lo scambio di idee sempre più diffuso, si potrebbe sviluppare un bel giorno una "intelligenza collettiva." Vedi ad esempio (se sai l'inglese) questo articolo, e il lavoro un po' più lungo da cui deriva.
Il "cervello globale" sarebbe il risultato di moltissime intelligenze individuali connesse fra loro, e che si esprime in progetti collettivi come Wikipedia (l'enciclopedia a cui "tutti possono collaborare" e a cui personalmente ho collaborato solo regalando qualche euro) o Linux, il sistema operativo gratuito sviluppato in parallelo da molte persone nel mondo. La connessione della rete consentirebbe a un gruppo di persone magari fisicamente lontane fra loro di lavorare al medesimo progetto e le renderebbe, nel loro insieme, un po' più sagge e intelligenti di quanto non siano individualmente.
Bah. A me danno fastidio definizioni come intelligenza collettiva o mente globale quando si cerca di prenderle troppo sul serio. Un gruppo di persone che cooperano (stando insieme in un laboratorio scientifico o sotto un capannone o camminando attorno ai portici al seguito di un filosofo, o connettendosi a internet) potranno certamente fare cose più eccelse di quanto possa fare una persona sola. Ma per quanto riguarda le idee e la consapevolezza, ciascuno ha le sue. La mente globale è solo un modo di dire. Non è un'entità consapevole che potrà dire un giorno "cogito ergo sum."
Certo, al giorno d'oggi la rete, oltre a farci seguire un sacco di stupidaggini (come i filmati "virali" di qualcuno che fa l'imbecille e diventa famoso per quindici giorni), può creare gruppi di collaborazione a livelli mai visti prima riunendo moltissime persone e soprattutto con il vantaggio di annullare le distanze. Ma non è che per avere gruppi di persone che collaborano a un progetto sommando le proprie capacità e intelligente serva "per forza" la rete. Queste cose si sono sempre fatte.
E d'altra parte il gruppo (di lavoro, di condivisione, di studio) può significare anche formicaio, conformismo, scoraggiamento del punto di vista personale e delle creatività individuali (qualcuno afferma che i social network ottengono proprio questo risultato, anche se immagino che come tante cose dipenda dall'uso che se ne fa: c'è chi si tiene in contatto con gli amici e c'è chi li usa per fare il bullo con le altre persone e spingerle al suicidio...).
Perciò quando sento parlare di "scienza dell'intelligenza collettiva" divento piuttosto scettico. E temo che studiare come connettere le persone per migliorare la loro "intelligenza collettiva" potrebbe ottenere il risultato opposto.
Il "cervello globale" sarebbe il risultato di moltissime intelligenze individuali connesse fra loro, e che si esprime in progetti collettivi come Wikipedia (l'enciclopedia a cui "tutti possono collaborare" e a cui personalmente ho collaborato solo regalando qualche euro) o Linux, il sistema operativo gratuito sviluppato in parallelo da molte persone nel mondo. La connessione della rete consentirebbe a un gruppo di persone magari fisicamente lontane fra loro di lavorare al medesimo progetto e le renderebbe, nel loro insieme, un po' più sagge e intelligenti di quanto non siano individualmente.
Bah. A me danno fastidio definizioni come intelligenza collettiva o mente globale quando si cerca di prenderle troppo sul serio. Un gruppo di persone che cooperano (stando insieme in un laboratorio scientifico o sotto un capannone o camminando attorno ai portici al seguito di un filosofo, o connettendosi a internet) potranno certamente fare cose più eccelse di quanto possa fare una persona sola. Ma per quanto riguarda le idee e la consapevolezza, ciascuno ha le sue. La mente globale è solo un modo di dire. Non è un'entità consapevole che potrà dire un giorno "cogito ergo sum."
Certo, al giorno d'oggi la rete, oltre a farci seguire un sacco di stupidaggini (come i filmati "virali" di qualcuno che fa l'imbecille e diventa famoso per quindici giorni), può creare gruppi di collaborazione a livelli mai visti prima riunendo moltissime persone e soprattutto con il vantaggio di annullare le distanze. Ma non è che per avere gruppi di persone che collaborano a un progetto sommando le proprie capacità e intelligente serva "per forza" la rete. Queste cose si sono sempre fatte.
E d'altra parte il gruppo (di lavoro, di condivisione, di studio) può significare anche formicaio, conformismo, scoraggiamento del punto di vista personale e delle creatività individuali (qualcuno afferma che i social network ottengono proprio questo risultato, anche se immagino che come tante cose dipenda dall'uso che se ne fa: c'è chi si tiene in contatto con gli amici e c'è chi li usa per fare il bullo con le altre persone e spingerle al suicidio...).
Perciò quando sento parlare di "scienza dell'intelligenza collettiva" divento piuttosto scettico. E temo che studiare come connettere le persone per migliorare la loro "intelligenza collettiva" potrebbe ottenere il risultato opposto.
lunedì 19 novembre 2012
Leggete quei benedetti manuali
Nel lontano 2009 avevo confessato in un post di trovare molto interessanti i manuali di scrittura creativa. Mi confronto spesso con persone che li odiano, gente con cui a volte si può ragionare, a volte che manifesta il suo scontento verso i suggerimenti tecnici in maniera spiritosa (vedasi questo gradevole post del Sommo Buta), e altri che diventano idrofobi appena sentono nominare le tematiche suggerite nei manuali.
Molti di quelli che vogliono scrivere credono di non averne bisogno, perché pensano che scrivere sia tutto genio e sregolatezza. Uno su mille potrebbe avere ragione per il proprio caso.
Altri probabilmente subiscono una reazione di rigetto per l'uso che dei manuali hanno fatto non pochi aspiranti scrittori che se ne sono serviti come di un ariete per aggredire le case editrici e le loro scelte editoriali (salvo poi cercare magari di entrare in quello stesso mercato dalla porta di servizio, un po' come gli eroi dell'antipolitica italiana). Le "regole" della scrittura creativa sono diventate quindi un'arma, poiché chi non faceva così-e-cosà diventava un ignorante degno dei peggiori epiteti.
Questo è ovviamente un atteggiamento strumentale. Ma, tra quelli che non hanno apprezzato certe aggressioni armate a suon di regolette, è probabilmente nato un rigetto verso i testi che parlano di scrittura creativa, pensando che vi siano solo regole rigide e imposizioni assurde.
Ovviamente chi rifiuta di leggerli scoprirebbe che non è così, se abbandonasse il proprio scetticismo. Ci sono inevitabilmente regole che vengono "caldamente" consigliate ma tutto è lasciato al buon senso e alla volontà di chi se ne serve, visto che siamo in un campo dove regna l'impressione soggettiva su ciò che è efficace o che è bello.
Con buona pace di chi dice che, mancando di seguire una certa regola, il risultato sarà inevitabilmente pessimo. E' pessimo ciò che un lettore ritiene sia pessimo, ed è pessimo solo per lui: un altro lettore magari la penserà diversamente. Il che crea anche la difficoltà di dare validi consigli quando uno scrive una recensione (il problema è: per chi la sto scrivendo? avrà gusti simili ai mei?).
Va detto che quello che consigliano i manuali è riferito al gusto del nostro periodo. Regole come quella che consiglia di limitare l'uso di avverbi e aggettivi favorisce una lettura lineare e scorrevole: non necessariamente lo scopo di chi scriveva un secolo o due fa.
Ci sono ovviamente alcune tematiche non semplici da imparare, e non del tutto intuitive, che possono piacere o non piacere. Il mio punto di vista personale su un paio di queste "regole:"
- Lo "show don't tell:" a volte sì, a volte no. Riconosco la maggiore immediatezza nel descrivere l'azione anziché limitarsi a scrivere "tizio fece questo e quello." A volte trovo preferibile tirar via, per non allungare il testo, e vedo che sono in ottima compagnia in questa scelta.
- Il punto di vista e i suoi tormenti: per quanto faticoso possa essere, credo che sia meglio imparare a usare la terza persona limitata (se non siete per la prima, ovviamente). E' possibile cambiare punto di vista spesso, del resto, e far vedere l'azione dalla visuale di tutti. Basta che sia chiaro chi sta facendo cosa. Cadere in trappola, come scrivevo qualche post fa, è facilissimo. Non sto dicendo che il caro vecchio "narratore onnisciente" non vada mai usato. Ma fidatevi, generalmente è meglio di no.
Ognuno scelga, prenda quello che vuole, anche nulla se davvero decide così. Ma se volete scrivere sul serio, leggeteli questi benedetti manuali. Male non vi fanno. E non mordono!
Molti di quelli che vogliono scrivere credono di non averne bisogno, perché pensano che scrivere sia tutto genio e sregolatezza. Uno su mille potrebbe avere ragione per il proprio caso.
Altri probabilmente subiscono una reazione di rigetto per l'uso che dei manuali hanno fatto non pochi aspiranti scrittori che se ne sono serviti come di un ariete per aggredire le case editrici e le loro scelte editoriali (salvo poi cercare magari di entrare in quello stesso mercato dalla porta di servizio, un po' come gli eroi dell'antipolitica italiana). Le "regole" della scrittura creativa sono diventate quindi un'arma, poiché chi non faceva così-e-cosà diventava un ignorante degno dei peggiori epiteti.
Questo è ovviamente un atteggiamento strumentale. Ma, tra quelli che non hanno apprezzato certe aggressioni armate a suon di regolette, è probabilmente nato un rigetto verso i testi che parlano di scrittura creativa, pensando che vi siano solo regole rigide e imposizioni assurde.
Ovviamente chi rifiuta di leggerli scoprirebbe che non è così, se abbandonasse il proprio scetticismo. Ci sono inevitabilmente regole che vengono "caldamente" consigliate ma tutto è lasciato al buon senso e alla volontà di chi se ne serve, visto che siamo in un campo dove regna l'impressione soggettiva su ciò che è efficace o che è bello.
Con buona pace di chi dice che, mancando di seguire una certa regola, il risultato sarà inevitabilmente pessimo. E' pessimo ciò che un lettore ritiene sia pessimo, ed è pessimo solo per lui: un altro lettore magari la penserà diversamente. Il che crea anche la difficoltà di dare validi consigli quando uno scrive una recensione (il problema è: per chi la sto scrivendo? avrà gusti simili ai mei?).
Va detto che quello che consigliano i manuali è riferito al gusto del nostro periodo. Regole come quella che consiglia di limitare l'uso di avverbi e aggettivi favorisce una lettura lineare e scorrevole: non necessariamente lo scopo di chi scriveva un secolo o due fa.
Ci sono ovviamente alcune tematiche non semplici da imparare, e non del tutto intuitive, che possono piacere o non piacere. Il mio punto di vista personale su un paio di queste "regole:"
- Lo "show don't tell:" a volte sì, a volte no. Riconosco la maggiore immediatezza nel descrivere l'azione anziché limitarsi a scrivere "tizio fece questo e quello." A volte trovo preferibile tirar via, per non allungare il testo, e vedo che sono in ottima compagnia in questa scelta.
- Il punto di vista e i suoi tormenti: per quanto faticoso possa essere, credo che sia meglio imparare a usare la terza persona limitata (se non siete per la prima, ovviamente). E' possibile cambiare punto di vista spesso, del resto, e far vedere l'azione dalla visuale di tutti. Basta che sia chiaro chi sta facendo cosa. Cadere in trappola, come scrivevo qualche post fa, è facilissimo. Non sto dicendo che il caro vecchio "narratore onnisciente" non vada mai usato. Ma fidatevi, generalmente è meglio di no.
Ognuno scelga, prenda quello che vuole, anche nulla se davvero decide così. Ma se volete scrivere sul serio, leggeteli questi benedetti manuali. Male non vi fanno. E non mordono!
domenica 18 novembre 2012
Bangkok Noir
Christopher G. Moore, scrittore canadese, ha dato il "nome di copertina" a questa raccolta di racconti assai diversi fra loro, dove il set per l'azione è la città tailandese di Bangkok. Personalmente non ci sono mai stato, anche se mi ci sono affezionato leggendo "The Windup Girl" di Bacigalupi. Conosco però l'oriente, almeno un po', per qualche fugace puntata turistica, e penso che niente neghi di ambientare laggiù un giallo, una storia d'azione o fantastica o, perché no, un "nero."
Alcuni racconti della raccolta (quasi tutti scritti da anglosassoni che hanno all'attivo molti anni vissuti a Bangkok) mi sono piaciuti parecchio, altri no (proprio quello di Christopher Moore non mi ha detto gran che), ma in generale il libro è godibile (e la formula dei racconti brevi, ma non così brevi da essere schiacciati in una camicia di forza, incontra il mio gusto).
La collezione può essere tranquillamente catalogata nel fantastico perché il magico vi trova una collocazione. Del resto l'ambientazione è uno di quei luoghi che uniscono la pragmatica mentalità occidentale a tutta una serie di strati di credenze, tradizioni e vincoli sociali, obblighi religiosi, superstizioni magiche. Un mondo che non capisci al primo sguardo.
Perciò abbiamo il mistero e la magia assieme alla squallida vita delle prostitute, la sacralità dell'onore che viene a lacerare l'anima del poliziotto corrotto, i fantasmi assieme ai killer della malavita.
Consiglio questo Bangkok Noir (che ho letto in inglese), perché alle storie "nere" per lo più godibili unisce uno spaccato della cultura del paese.
Alcuni racconti della raccolta (quasi tutti scritti da anglosassoni che hanno all'attivo molti anni vissuti a Bangkok) mi sono piaciuti parecchio, altri no (proprio quello di Christopher Moore non mi ha detto gran che), ma in generale il libro è godibile (e la formula dei racconti brevi, ma non così brevi da essere schiacciati in una camicia di forza, incontra il mio gusto).
La collezione può essere tranquillamente catalogata nel fantastico perché il magico vi trova una collocazione. Del resto l'ambientazione è uno di quei luoghi che uniscono la pragmatica mentalità occidentale a tutta una serie di strati di credenze, tradizioni e vincoli sociali, obblighi religiosi, superstizioni magiche. Un mondo che non capisci al primo sguardo.
Perciò abbiamo il mistero e la magia assieme alla squallida vita delle prostitute, la sacralità dell'onore che viene a lacerare l'anima del poliziotto corrotto, i fantasmi assieme ai killer della malavita.
Consiglio questo Bangkok Noir (che ho letto in inglese), perché alle storie "nere" per lo più godibili unisce uno spaccato della cultura del paese.
venerdì 9 novembre 2012
Silent Hill Revelation 3D e The Possession
Una doppia recensione molto molto breve, per due film dell'orrore davvero diversi fra loro. Silent Hill Revelation 3D è ispirato a un videogame. Trama cervellotica, ma se non la segui è lo stesso. Belle visuali, attori famosi, qualche trovata grafica: ma è più un film d'azione che un horror. Sinceramente l'ho trovato noioso per quanto visivamente accattivante.
Meno noioso, con un passo abbastanza buono, ma scontato: The Possession si impernia sul classico oggetto feticcio o bambolina dannato e abitato da un demone malvagio. Qualche attore noto c'è anche qui, ma nonostante le promesse a effetto (film ispirato a una storia vera, ecc...) il risultato è un po' loffio. Se mi si permette di rivelare una scena: quando il buon papà preoccupato per la figliola posseduta dal demone va a consulto con i saggi religiosi ebrei e mostra la misteriosa scatola da cui era partito il tutto, le espressioni e le esclamazioni di orrore dei religiosi potranno ben facilmente far partire un coro di risate in sala, per quanto la scena risulta involontariamente comica.
Visivamente più interessante il primo, meno soporifero il secondo, entrambi i film sono consigliabili solo ai patiti dell'horror, quelli che comunque se li vedono tutti.
La mia recensione completa è su Fantasy Magazine per entrambi i film: Silent Hill Revelation 3D e The Possession.
Meno noioso, con un passo abbastanza buono, ma scontato: The Possession si impernia sul classico oggetto feticcio o bambolina dannato e abitato da un demone malvagio. Qualche attore noto c'è anche qui, ma nonostante le promesse a effetto (film ispirato a una storia vera, ecc...) il risultato è un po' loffio. Se mi si permette di rivelare una scena: quando il buon papà preoccupato per la figliola posseduta dal demone va a consulto con i saggi religiosi ebrei e mostra la misteriosa scatola da cui era partito il tutto, le espressioni e le esclamazioni di orrore dei religiosi potranno ben facilmente far partire un coro di risate in sala, per quanto la scena risulta involontariamente comica.
Visivamente più interessante il primo, meno soporifero il secondo, entrambi i film sono consigliabili solo ai patiti dell'horror, quelli che comunque se li vedono tutti.
La mia recensione completa è su Fantasy Magazine per entrambi i film: Silent Hill Revelation 3D e The Possession.
lunedì 5 novembre 2012
Terrore nello Spazio
Si continua a bisbigliare nemmeno tanto sottovoce che Ridley Scott (o il suo sceneggiatore?) abbia soffiato un'idea italiana per il suo Alien. Sarà vero?
L'ispirazione sarebbe presa da Mario Bava, che girò Terrore nello Spazio nel lontano 1965 traendo spunto da un racconto di un connazionale, Pestriniero. Storia quindi tutta nostrana con attori in parte italiani (ma nomi stranieri per le parti che contano), patetici effetti speciali e astronauti vestiti di divise così ridicole da non crederci. La mia prima impressione: si fa quasi fatica a vedrlo, oggi, però non è che Star Trek fosse in effetti molto meglio.
Valido nella regia e nell'atmosfera, questo film appartiene a tutto diritto all'epoca eroica del cinema italiano, anche se ad essere precisi è una coproduzione italoamericana. Il film ha titolo in inglese "Planet of the Vapires." Qui parlo espressamente della trama, perciò chi non vuole gli "spoiler" fugga finché è in tempo.
Abbiamo due astronavi pilotate da umanoidi (sono umani in tutto e per tutto, ma attenzione non sono terrestri!), che sono state richiamate da un misterioso segnale inviato da un pianeta. Mark (Barry Sullivan), che comanda una delle navi, è sicuro che il messaggio sia stato inviato da una razza intelligente. Entrambe le navi spaziali arrivano sul pianeta (Aura, apparentemente disabitato) ma comincia subito una serie di guai fin dall'atterragio disastroso. Avvengono vari strani fenomeni e si ha la sensazione di essere spiati da qualche entità aliena. Quando si addormentano o perdono conoscenza gli astronauti vengono dominati da una volontà che li costringe a lottare fra di loro o a compiere varie azioni di sabotaggio (apparente). Particolarmente gettonato è un attrezzo, il "deviatore di meteore," che è indispensabile alla navigazione.
Quando riescono a vedere i misteriosi alieni, gli umani li percepiscono solo per un attimo come strane luci, e non possono nemmeno decidere con certezza cos'hanno visto.
Nel frattempo una delle navi ha avuto l'equipaggio completamente massacrato (incluso il fratello di Mark, il comandante dell'altra nave): per la precisione, si sono ammazzati fra loro sulla spinta dell'influenza aliena. Nell'altra nave è stato Mark a fermare con successo la strage limitando le vittime; tuttavia i guai sono appena iniziati. Alcuni uomini scompaiono, e altri misteriosamente riprendono vita dopo morti. La nave priva di equipaggio è inservibile in quanto priva del famoso deviatore di meteore menzionato sopra, l'altra può tentare di decollare ma è danneggiate e ha ottime possibilità di esplodere. Il tecnico Wes, interpretato da Angel Aranda, resta sempre a bordo e inizia una maratona di superlavoro per riparare i motori.
Insomma gli umani la vedono molto brutta. In mezzo a tutto questo, il valoroso comandante esplora un po' i dintorni. Viene così trovata una vera nave aliena, ben concreta anche se rovinata dal tempo: al di fuori (e poi anche all'interno) gli esploratori troveranno resti di un umanoide di grandi dimensioni. Maneggiando gli strumenti di bordo parte una strana registrazione vocale che non viene tradotta (restando senza significato per lo spettatore). Mark deve presto fuggire da lì, e quindi non si riesce a scoprire molto di più.
Dopo questi eventi la trama ha un disvelamento: gli astronauti "zombi" sono sotto l'influenza degli alieni (che li trovano molto comodi da controllare, anche più di quelli che si addormentano, in quanto del tutto privi di volontà). Uno di questi morti viventi spiega che, essendo il pianeta Aura orbitante attorno a un sole moribondo, la loro civiltà di esseri quasi incorporei (non chiedetemi...) ha lanciato il segnale perché arrivasse qualcuno dotato di corpi e... astronavi per rubare entrambe le cose e scappar via.
L'alieno che fa questa rivelazione propone a Mark di andar via insieme, e gli rivela che un altro umano "finto vivo" intrufolatosi sulla nave spaziale con lui ha rubato il famoso deviatore di meteore: perciò qualsiasi sia la risposta di Mark questi "vampiri spaziali" potranno a breve decollare (con l'altra nave, quella il cui equipaggio è tutto defunto, quindi ora tutto "vampirizato" dagli alieni).
Una volta giunti in un pianeta abitato gli alieni potranno "aprire la strada," richiamare tutti quelli della propria razza. Insomma abbiamo la classica scena del cattivo che rivela tutto il proprio piano per permettere ai buoni di reagire e, per inciso, spiegandoci finalmente cosa sta succedendo. (Altra osservazione che ci tengo a fare: gli alieni non avrebbero, secondo me, nessun interesse a entrare in trattativa dopo essere arrivati così vicini al successo).
Mark rifiuta ogni accordo e cerca di distruggere la nave controllata dai nemici, e di riprendersi l'indispensabile deviatore di meteore. Va all'assalto (accompagnato dalla bella Sanya, interpretata da Norma Bengell), ha successo nonostante la perdita di altri uomini, e infine i due decollano. Sono rimasti loro due e Wes, il tecnico citato prima.
Finalmente libero di dormire dopo il gran lavoro, Wes scopre che qualcosa non va. Forse qualcun altro è stato posseduto dagli alieni! Ebbene, questo è avvenuto sia a Mark che a Sanya. Con un'altra scena piuttosto ingenua, glielo rivelano e lo invitano a unirsi a loro. Wes ovviamente rifiuta di collaborare e scappa (ma non gli sparano!). Riesce a distruggere il famoso deviatore di meteore e nel farlo riceve una scossa elettrica mortale.
Privi dell'indispensabile strumento, Mark e Sanya sanno che non possono andare in giro nello spazio, è troppo pericoloso. Decidono di atterrare nel primo posto disponibile dove ci siano umanoidi e trovano... la Terra del XX secolo. Il finale è a effetto, ma questo ultimo colpo di scena non è giustificato modo plausibile (come e quando sono stati "convertiti" i due? perché avrebbero fatto l'eroico attacco per riprendere il deviatore, se erano già controllati dagli alieni?).
C'è chi dice che questo film sia bello a vedersi ancora oggi. Io direi non molto, ma a parte questo va ammesso che si tratta di una pellicola notevole: nonostante certe ingenuità vi è una serie di idee inquitanti e un sapiente montare della tensione. Non a caso Terrore nello Spazio viene citato come assai influente sul successivo cinema di fantascienza.
Per tornare al quesito iniziale, ecco le similitudini con Alien che saltano più all'occhio, a mio parere:
- il misterioso richiamo fa venire gli umani sul pianeta (la natura del richiamo in Alien però è diversa).
- vi si trova già un'altra nave che ospitava umanoidi giganteschi ora defunti da tempo.
- nel pianeta c'è un parassita che ha bisogno dei corpi degli umani (e di andarsene con le loro navi spaziali, ma questo succede anche in Alien sia pure in maniera casuale).
- fulcro del film sono le situazioni di grandissima paranoia e terrore, la graduale brutta fine degli equipaggi (che però in Bava raramente viene esposta in maniera da creare sufficiente dramma e tensione anche perché i personaggi sono poco caratterizzati e la maggior parte degli attori recita male).
Le differenze ovviamente sono altrettanto numerose e in parte ovvie: una che salta all'occhio è l'assenza di un personaggio come quello di Ripley (la prima "donna d'azione" a tutto tondo) in Terrore nello Spazio. Le donne astronauta a volte compiono il loro dovere con competenza e utilizzano le armi morendo in combattimento, a volte scoppiano in pianti e urla e devono essere virilmente soccorse e consolate dagli uomini. Ovviamente nel film di Bava, fatto con quattro soldi, non poteva esserci l'alieno brillantemente realizzato da Ridley Scott e compagni: a parte quattro lucine ridicole tutto si risolve con gli umani che vengono "posseduti."
Ridley Scott avrebbe detto in un'intervista (ai tempi del lancio del film Alien) che non era stato influenzato da Mario Bava (né lui né chi aveva scritto la sceneggiatura avrebbero visto Terrore nello Spazio). Se questa affermazione, che ho trovato citata in rete, è vera, devo dire che non riesco a crederci. Il mio verdetto personale dopo aver visto Terrore nello Spazio è che, per quanto (ovviamente) i due film alla fine non abbiano lo stesso sapore, le somiglianze sono troppo puntuali e numerose.
Oddio, poi c'è anche chi ritiene che Terrore nello Spazio sia tra le influenze che hanno giocato su Prometheus, il prequel/remake di Alien girato in tempi molto più recenti. Influenze non solo nella trama ma anche in certi dettagli delle uniformi, dei paesaggi... Qui non mi pronuncio.