Roba pesante, cari miei. Il Capitale, scritto ovviamente da Karl Marx, è un libro importante per la nostra epoca, ma non si tratta di una facile lettura. Ho letto il libro primo, una fatica improba visto che si tratta di oltre mille pagine (io l'ho letto in ebook).
Leggere Marx nel terzo millennio non è un esercizio inutile, a mio parere, e questo indipendentemente dall'essere comunisti, anticomunisti, o semplicemente in cerca di approfondimento culturale. E devo dire che la lettura del Capitale, per quanto in molti passaggi sia di una noia mortale, è molto più interessante di qualsiasi riassunto o bigino si possa trovare in giro, per quello che ho potuto vedere. Per alcuni aspetti leggendolo veramente si può apprezzare l'autore là dove merita di essere apprezzato, mentre per altri aspetti si può facilmente verificare che il mito del suo infallibile approccio scientifico all'economia è, appunto, solo un mito da far bere chi non lo ha veramente letto.
È necessario premettere che io non sono anticomunista ma contrario a tutte le ideologie, a questo punto della mia vita. Quanto a Marx, riconosco alcune delle sue intuizioni come acute e azzeccate, ma ne considero il pensiero superato, e le realizzazioni pratiche del comunismo ormai già giudicate dal tribunale della storia (anche se... chissà che non ritorni alla ribalta). Mi sono reso conto in molte occasioni che, quando tiri fuori il nome di Marx, gli interlocutori alzano gli occhi al cielo o si danno alla fuga, e magari poi ti trattano come un estremista fuori dal mondo. Ebbene per me non si tratta di "crederci" (certamente non sono un "credente") ma di avere presenti le idee di questo pensatore laddove ancora rilevanti per il mondo di oggi, nonché le testimonianze storiche da lui raccolte quando parla della condizione del lavoro ai suoi tempi.
Non potendo riassumere un tomo del genere in spazi sopportabili per il blog, mi limiterò a riportare le mie osservazioni su alcuni punti.
Marx analizza innanzitutto il processo di scambio, la circolazione del capitale, e la produzione della merce. Fa notare che in qualsiasi merce che venga scambiata è intrinseca, "cristallizzata," una certa quantità di lavoro. E direi che sia vero, salvo casi estremi, tipo uno che trova un diamante per terra e lo va a vendere (ma un cercatore d'oro già ci mette del lavoro, investe in strumentazione e via dicendo). La merce può essere prodotta per utilizzarla, oppure per scambiarla: ha quindi un valore d'uso e un valore di scambio; quando viene scambiata può essere equivalente di tantissime altre merci e per favorire le transazioni è nato un equivalente, ovvero un'altra merce che si chiama denaro e che può avere o non avere un valore concreto di per sé: le monete di metallo prezioso lo hanno, le banconote no. Quel valore di scambio, comunque espresso, è valore socialmente riconosciuto, dato dalla somma del valore della materia prima, di eventuali strumenti che si consumano nella lavorazione, e del lavoro umano "socialmente necessario," ovvero ore di lavoro di un lavoratore di abilità media, spese per produrre qualcosa che sia desiderato da eventuali consumatori - se non è socialmente necessario il lavoro è fatica sprecata.
Tralascio qui le formule con cui Marx spiega i concetti. Quello che a lui preme dimostrare è che il meccanismo diventa perverso per vari motivi. Innanzitutto, quando un uomo lavorava per se stesso, era padrone di quello che produceva, mentre nel capitalismo non lo è. Inoltre il denaro, nel ciclo di produzione capitalista, diventa un fine in se stesso: finché io produco scarpe per vivere, il ciclo è merce (le scarpe), denaro (che guadagno vendendo le scarpe), merce (tutto il resto che mi serve per vivere e che compro con il guadagno della vendita delle scarpe che produco). Nella produzione capitalista si parte dal denaro, con cui si produce la merce, che viene venduta), e di nuovo si arriva al denaro, ovvero il recupero di quanto speso inizialmente con un provento addizionale, e che il capitalista accumula.
In questo processo, l'operaio viene derubato. Infatti nella produzione abbiamo un capitale costante che verrà recuperato aggiungendolo al costo della merce, ovvero il costo della materia prima e di quant'altro necessario per la produzione, e un capitale variabile che è il costo del lavoro: variabile perché le circostanze della produzione (ad esempio se viene introdotto un macchinario più efficiente) o le dinamiche del salario possono cambiare, le paghe o il numero degli operai necessari possono variare eccetera. E poi abbiamo il prodotto finale che viene venduto per incassare un prezzo che è maggiore della somma del capitale fisso più quello variabile. Questo è il plusvalore.
Ad esempio, il capitalista spende 500.000 euro per comprare un capannone, le macchine e la materia prima per produrre le scarpe: cuoio, strumenti e via dicendo. Nella produzione impiega 100 operai che paga 1.000 euro ciascuno, il minimo per campare e riprodursi; quindi aggiunge altri centomila euro alle proprie spese che arrivano a 600.000 euro. Quando, in un mese, ha prodotto le scarpe, le vende e ricava 800.000 euro. Con un po' di matematica deduciamo che il plusvalore è 200.000 euro, ovvero 800.000 meno 500.000 di spese materiali e 100.000 di stipendi. E quei 200.000 sono soldi rubati. Perché per Marx il capitalista non ha fatto nulla, è un completo parassita. Pertanto se si fossero prodotte solo abbastanza scarpe da ricavarne 600.000 euro (ovvero rientrare nelle spese) l'affare sarebbe stato giusto, perché il capitalista non ci guadagnava e l'operaio prendeva il suo giusto salario. Tutto il lavoro in più e la relativa sovrapproduzione che portano al guadagno di 200.000 euro sono un furto ai danni degli operai. Proprio così.
Marx arriva a queste brillanti conclusioni, che ritiene scientifiche, lanciando spesso arroganti strali contro gli economisti tradizionali che non capiscono niente, e in un paio di punti condisce il tutto con pesanti battute antisemite da birreria. Io mi domando: perché uno dovrebbe mettere in piedi una fabbrica se il suo guadagno è un furto? La risposta non arriva nel primo libro, ma penso che i giusti proprietari della fabbrica per Marx siano gli operai, che la mettono in condizione di operare. Tanto tutti gli altri non fanno niente, no?
Ora, il lavoro viene spesso sfruttato, ci sono condizioni infami e paghe insufficienti e lo sappiamo tutti. Ma questa conclusione "logica" di Marx non sta in piedi adesso e non stava in piedi neanche ai suoi tempi, anche se oggi il fatto è più evidente. È come se l'imprenditore non avesse il diritto di guadagnare per avere messo in piedi la fabbrica; come se chi ha progettato il prodotto non avesse lavorato, e via dicendo. Oggi vi è una tale quantità di fattori intellettuali e/o immateriali che concorrono al successo della merce (marketing, ecc.) che la fallacia del ragionamento salta subito all'occhio. Se un gruppo di operai lavora dieci ore per produrre un'auto che grazie a una intelligente promozione tutti i clienti vorranno, o una che viene derisa come l'auto del ragionier Fantozzi, il ricavo sarà molto diverso, ma dipenderà da fattori che non hanno alcunché a che vedere con il lavoro degli operai.
Uno potrebbe ribaltare il discorso, visto che si parla di produzione coadiuvata da macchinari, partendo dalle macchine stesse. La macchina ha un costo, che va ammortato su diversi anni, più riparazioni, materiali ed energia che servono per farla andare, e spese per la materia prima e gli operai. Ci sono anche oneri finanziari da sopportare, se il denaro per mettere tutto il meccanismo in piedi è stato anticipato dalla banca. Poi ci sono le tasse, le spese di distribuzione, il venditore al dettaglio che ti paga a 30 o a 60 giorni eccetera. Quando si riesce ad andare in utile recuperando le spese iniziali e guadagnando qualcosa, quello è il plusvalore, ovvero quando sei riuscito a mandare la macchina in utile, prima che diventi superata o non funzioni più.
Infine, sorge un dubbio: la donna delle pulizie, la badante, il guardiano notturno, il cassiere della banca o del supermercato, quand'è che finiscono di produrre per il proprio mantenimento e iniziano a produrre plusvalore? Dov'è la "merce?" Insomma, a me pare che siamo di fronte a un concetto spurio, o comunque inadeguato rispetto alle conclusioni che se ne vorrebbe trarre.
Ma altri discorsi di Marx sulla natura del lavoro sono degni di nota. Il lavoro alienante, ripetitivo, che trasforma l'uomo in una appendice della macchina e addirittura lo trasforma affinandone certe capacità e a volte cambiandolo anche fisicamente. O al contrario, il lavoro come semplice ausilio del macchinario, in un procedere noioso di gesti semplici e banali, lavoro che rende l'operaio incapace di fare altro, incapace di fare qualcosa di utile, una volta che sia stato licenziato.
Sulla rivoluzione industriale e le sue origini, Marx spende diversi capitoli (e tira in ballo anche il colonialismo e la tratta degli schiavi). Il capitalista, nell'esempio della produzione di scarpe fatto sopra, paga all'operaio abbastanza denaro per campare e riprodursi, in modo che ci sia sempre la "classe operaia" a disposizione. Ma a volte riesce a imporre le sue condizioni, paga meno del necessario per sopravvivere, impiega i bambini, dilata a dismisura l'orario di lavoro eccetera. Questo, si può dire adesso, accade oggi soprattutto nei paesi di più recente industrializzazione, ma anche in quelli sviluppati, dove i diritti del lavoratore vengono sempre più limitati.
E inoltre Marx denuncia il "peccato originale" del capitalismo: come si è creato l'accumulo di capitale che ha reso possibile passare dai metodi di produzione medievali e preindustriali all'industrializzazione? Marx riassume i passaggi, con la distruzione delle proprietà feudali (o la trasformazione dei nobili in capitalisti), l'eliminazione degli antichi diritti del popolo sulle terre comuni, che vengono trasformate in pascoli recintati, la cacciata dei contadini dalle abitazioni di campagna e la loro trasformazione in proletariato cittadino nullatenente, operazione fatta coscientemente e col sopruso.
Potrete certamente leggere l'altra campana: i metodi di produzione medievali erano inadeguati alle necessità, visto l'incremento della popolazione, e per fortuna sono arrivati dei benefattori che hanno cambiato l'economia. Be', non credo che ci sia stata alcuna benevolenza in quel processo. In questo caso preferisco fidarmi più del caro vecchio Marx, che comunque cita molte fonti a sostegno di quello che afferma.
Non posso scrivere un post infinito sul tema e certamente non c'è spazio per una trattazione esauriente. Ricordo però che l'importanza di Marx non sta nei rimedi proposti ai nostri malesseri, rimedi che hanno fallito malamente, ma nell'analisi dei processi del capitalismo liberista, a volte molto precisa nonostante l'epoca da cui proviene.
In questo senso, il barbuto di Treviri è ancora rilevante.
Note finali:
- l'immagine è presa da Wikipedia
- consiglio questo libro solo a lettori motivati e magari con una discreta cultura generale, per quanto sia (con fatica e applicazione) accessibile ai più.
Nessun commento:
Posta un commento
Per contrastare in qualche modo gli spammer, ho dovuto introdurre la moderazione dei commenti su post più vecchi di due settimane. Peccato: mi ci hanno proprio obbligato. Inoltre non si può postare anonimamente.