Sovranità o Barbarie ricalca per certi aspetti una mia lettura molto illuminante di due anni fa, La Scomparsa della Sinistra in Europa, dove si evidenziava come la sinistra abbia, fin dai lontani anni '70, scelto di adeguarsi alle logiche del liberismo senza tornare indietro da questa sciagurata rotta nemmeno quando si dirigeva verso le più spietate conseguenze, quelle che vediamo negli ultimi anni.
In effetti qui ci sono anche citazioni di quel libro, ma il discorso di Sovranità o Barbarie è molto più ampio e la ricostruzione storica molto più dettagliata e interessante, affrontando anche lo scabroso argomento della "germanizzazione" dell'Europa, ovvero la ricerca da parte dei nostri amici tedeschi di clausole e regole a proprio favore, in modo da prosperare e allo stesso tempo trasformare i paesi periferici (Italia, Grecia, ecc...) in una periferia deindustrializzata da comandare a bacchetta, perché priva ormai di una forza economica propria.
Vi sembra di riconoscere lo stato della nostra nazione? Bene (male). Ora vediamo come e perché è successo.
Due parole sugli autori: Thomas Fazi è un giornalista e traduttore italiano. La principale mente dietro questo libro è quella dell'economista australiano Bill Mitchell (vero nome William Francis). È docente presso un'università di Newcastle (in Australia), ed esponente della Teoria Monetaria Moderna, che sostanzialmente predica il controllo statale sulla moneta (compreso il decidere quanta stamparne).
In Sovranità o Barbarie si esamina la dinamica economica del dopoguerra, i "favolosi trenta," ovvero quel periodo dalla fine del secondo conflitto mondiale agli anni '70 in cui, tra un problema e l'altro, si godeva di una crescita economica guidata dal modello keynesiano, ovvero con intervento statale, controllo dei mercati e della circolazione di capitali, libertà operativa sulla moneta.
Lungi dal creare inflazione o "inefficienza," come ci viene detto sempre, questo modello permise, per un certo tempo, un coincidere degli interessi dei lavoratori e della classe media con una sostanziale soddisfazione del capitale. Ai ricchi è andata bene così, a quanto pare, per un certo periodo e poi non più. Le cose sono cambiate nel momento in cui le richieste economiche, ma anche di rappresentanza politica, delle classi lavoratrici sono diventate difficili da gestire, e i ritorni economici minori.
Venne così la stagione del "meno stato e più mercato," che gli autori identificano invece come una fase che non sarebbe nata senza l'intervento delle elite e dei governi, e che per giunta ha trovato un alleato nella sinistra, convinta che il modello keynesiano non potesse più essere utilizzabile, e delusa dalle utopie rivoluzionarie.
"Un paese che rinuncia al potere di emettere la propria moneta acquisisce lo status di colonia"
Una osservazione nel libro, riguardante il nuovo modo di pensare della sinistra, all'inizio della metamorfosi pro-liberale, riguarda il fatto che secondo le nuove linee di pensiero gli individui non si possono ridurre (vista la varietà dei loro attributi, desideri ecc...) alla classe sociale, pertanto la lotta di classe doveva essere abbandonata a favore delle istanze individuali e dei diritti civili.
Non essendo comunista, non posso che essere, almeno in parte, d'accordo (trovo il concetto di "lotta di classe" un tantino indigesto, se portato alle estreme conseguenze). Ma le classi esistono lo stesso, che ci si pensi o no, e i privilegiati lo sanno, anzi sono molto attenti a difendere la propria. Chi prende uno stipendio modesto è nella stessa barca di milioni di altre persone: dovrebe ricordarselo quando arriva l'ennesima manovra per fregarlo, indipendentemente dal fatto che magari gli interessa di più andare allo stadio.
Tra gli anni '70 e '80, con le sterzate di politici come Mitterrand, o anche quelli di casa nostra, la sinistra riconosceva che cambiamenti radicali a livello nazionale non se ne potevano ottenere e cominciava così ad andare in cerca di una soluzione sovranazionale. Il che era proprio ciò che ai liberisti avrebbe fatto comodo.
La desovranizzazione ha disarmato lo stato nazione, unico luogo politico e sociale in cui si possono ottenere (o difendere) dei vantaggi per i lavoratori. Nella dimensione sovranazionale, quella degli enti onnipotenti ma non eletti, il voto non arriva a influenzare le cose.
Inoltre è arrivato il vincolo monetario, che impedisce (da parecchi anni ormai) la libertà di emettere moneta per le banche nazionali. Quel vincolo oggi si chiama Euro, una volta si chiamava serpente monetario: da quando esiste l'obbligo di mantenere cambi fissi, o limitatamente flessibili, lo stato non può fare politiche espansive. Oggi le Banche centrali delle singole nazioni non contano più nulla. Ci è stato insegnato (se di economia avete imparato qualcosa, o seguito un po' di dibattiti in TV) che nulla è peggio che stampare moneta per pagare le necessità correnti dello stato, ma in questo libro l'argomento viene discusso sotto diversi punti di vista, e la demonizzazione rimossa.
Bill Mitchell
Di tutte queste trasformazioni e dei loro pericoli non si era accorto nessuno? Il libro ci fornisce abbondanti esempi di personaggi che avevano previsto assolutamente tutto. Prima ancora dell'Unione Europea, quando l'Italia aderiva alla CECA (un mercato comune del carbone e dell'acciaio), Giuseppe di Vittorio, primo segretario della CGIL, interveniva alla Camera affermando che sarebbe stato pericoloso gerarchizzare gli spazi europei in una comunità che metteva insieme paesi che per strutture e capacità produttive erano molto diversi. E questo privava quelli più arretrati (L'Italia, guarda caso) della possibilità di perseguire politiche industriali in autonomia. Era il 1952 e già c'era uno che prevedeva esattamente il divario tra centro e periferia che ci avrebbe poi rifilato l'Unione Europea. Non è l'unico caso. In Sovranità o Barbarie potete leggere vari interventi di Magri, Berlinguer, ecc...
Quello che è avvenuto in seguito, con il "divorzio" tra il Tesoro e la Banca Centrale (indipendenza di Banca d'Italia dal Tesoro) ha trasformato il debito pubblico da qualcosa che si può decidere di non pagare (eventualmente scontandolo con un aumento dell'inflazione) in una palla al piede pesantissima, con l'obbligo del pareggio di bilancio.
Fazi e Mitchell descrivono un quadro secondo cui l'Unione Europea è stata creata, come anche la moneta unica, per togliere ricchezze e potere decisionale ai lavoratori (ma io direi alla gente in generale) a favore delle elite (ricchi, padroni ecc...). È una descrizione credibile? Tutti gli indizi vanno in quella direzione.
Tuttavia si parla anche di come l'UE abbia favorito la Germania, in quanto tutto è tarato sulla "sua" moneta: l'Euro è una valuta forte come lo era il Marco tedesco. Dal momento che oggi tutto è lotta per esportare, una economia debole che subisce le esportazioni tedesche starebbe meglio se avesse conservato la propria moneta, senza cambio fisso ma liberamente fluttuante. Perché? semplice: dopo un po' quella nazione godrebbe dell'effetto equilibratore dei cambi (la moneta del paese esportatore si apprezza e quella del paese debole si svaluta) permettendo un migliore equilibrio.
Ma oggi nei paesi che usano l'Euro non c'è questo effetto di riequilibrio. E il vantaggio è tutto per il paese esportatore. E infatti vediamo (almeno qui nel nord Italia) il proliferare delle varie catene Lidl, Aldi, Carrefour, dove guarda caso una grande quantità della merce è tedesca e francese. Che una volta (lo spiego per la gioventù che eventualmente leggesse questo articolo, e non lo sa) noi difficilmente "potevamo permetterci." Adesso possiamo, che bello! Ma la merce italiana si vende di meno, intanto.
Non voglio fare un post interminabile per spiegare tutto quello che viene esposto nel libro, ma pongo un paio di dubbi che mi sono venuti leggendolo.
1) Non si parla di globalizzazione, che per me è stata, per come gestita, il nemico numero uno dei popoli sviluppati, classe o non classe. Paesi come gli USA o la Gran Bretagna non hanno perso la sovranità monetaria, eppure si trovano in guai molto simili a quelli dei paesi dell'Unione monetaria.
2) Se l'adesione all'UE è stata un suicidio, e l'abbandono delle politiche keynesiane disastroso, possibile che (salvo gli interventi citati nel libro) nessuno si sia reso conto di questo in tempo? Non voglio mettermi dalla parte di quelli che affermano con disprezzo che la svalutazione competitiva non porta da nessuna parte, o che il debito pubblico è follia. Ma forse non sono nemmeno le ricette che sistemano tutto, o quanto meno, non si possono usare sempre (un po' lo ammette anche il libro). Quindi: si poteva davvero, trent'anni fa, evitare di firmare il trattato di Maastricht e continuare tutto come prima? Era così facile? I nostri politici sono stati degli imbecilli? Dei venduti? Sono stati costretti?
Infine, una cosa che vorrei capire. E che qui, dove tanti fatti economici e politici sono spiegati in dettaglio, non viene affrontata. L'Euro è stato gestito a immagine e somiglianza del marco tedesco, ok. Non una moneta che andasse bene per tutti, ma una che si adattasse alle economie più forti e strozzasse le più deboli. Con quale autorità? È stata una precondizione imposta dalla Germania? È stata idiozia nostra permetterlo? Non si poteva fare una via di mezzo? Come funziona?
Ma non è finita: vista la recente approvazione di un finanziamento (Recovery Fund), in parte a fondo perduto secondo le linee che gli autori di questo libro approverebbero, cosa dobbiamo pensare? che l'Europa ha solo reagito a una emergenza o che sta invece cambiando rotta? E se lo sta facendo, è per timore dei partiti sovranisti, o per quale motivo?
Consiglio ad ogni modo la lettura di questo libro, anche se forse apre più domande di quante ne chiuda. Perché capire qualcosa di questi processi è importante: infatti, forse, saremo prima o poi costretti a prendere decisioni drammatiche per la nostra sopravvivenza. Fare gli straccioni dentro l'edificio sovranazionale, o avventurarci fuori, per recuperare indipendenza e libertà di azione, pur nelle nostre misere condizioni?
Nota: la copertina del libro è presa da Amazon, la foto di Bill Mitchell da Wikipedia.
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