giovedì 13 dicembre 2018

Hostel

Capitatami l'occasione, ho visto Hostel, dopo che m'ero ripromesso di non farlo quando avevo visto Hostel II nel 2015. Anche qui si tratta di un horror in cui ignari turisti vengono catturati e macellati (è il caso di dirlo) per il piacere di sadici che appartengono a una specie di orrendo club segreto.
A dire la verità, pur essendo ovviamente preparato a quello che avrei visto (il seguito è praticamente la stessa cosa) ho trovato il primo film più interessante, sebbene non siamo in presenza di un capolavoro. Per esempio il regista Eli Roth, che ha diretto questo film quando era agli inizi di una valida carriera nell'horror, ha saputo cogliere, meglio che nel primo film, l'atteggiamento del turista ignorante che si muove nel mondo degli altri come se fosse in un luna park di divertimenti, sesso e droga: qui i "colpevoli" sono un paio di yankee (e un amico islandese che si aggrega) ma l'atteggiamento è generale nel turista globalizzato. Quello che incide il proprio nome sul Colosseo, per capirci.


È statunitense, però, anche uno dei torturatori, con cui il protagonista Paxton (Jay Hernandez, visto in Suicide Squad) ha un breve colloquio mentre cerca di sfuggire dalla fabbrica abbandonata in cui si svolge lo scempio delle vittime. E non è, in un certo senso, diverso dal trio di vacanzieri spensierati, è solo un po' più amorale e sadico.



Così abbiamo scorci di Amsterdam, paradiso di canne e prostituzione, e l'immancabile viaggio nell'Europa dell'Est, dove alle ragazze affamate basta sentir parlare in accenti americani per accorrere a frotte. I giovanotti in vacanza sono fiduciosi, hanno il mondo in tasca, non sospettano di essere loro le prede di una trappola, dove verranno trascinati da due avvenenti ragazze russe, seducenti e spudorate.
Il regista gioca con i cliché, compresa la frotta di ragazzini in apparenza innocenti e in realtà pericolosissimi (c'è anche nel seguito), la polizia in combutta con i più osceni criminali, l'est europeo che cade a pezzi. Non manca un cameo di Takashi Miike, nei panni di un sadico giapponese.

In Hostel non mancano i vecchi modelli FIAT, orgoglio del defunto blocco sovietico...

La Slovacchia, dove la parte horror di Hostel si svolge, è vista come un paese devastato, tra automobili vecchie e brutte, corruzione e devastazione morale, edifici cadenti che talvolta mostrano una traccia di un migliore passato, povertà e facce da galera ovunque. Secondo Wikipedia ci fu una reazione da parte dei politici slovacchi, a cui Eli Roth avrebbe risposto che "gli Americani non sanno nemmeno dov'è la Slovacchia," il che probabilmente è vero ma, immagino, potrebbe aver peggiorato la situazione.

Paxton è, dei tre amici, quello che riuscirà a salvarsi e a riscattarsi. E a ottenere tremenda vendetta su chi lo indirizzato verso la trappola. Non riesce però a salvare una ragazza giapponese che ha aiutato a scappare: lei si suicida quando vede come è stata sfigurata dalle torture.

La tentazione del male, offerto come qualcosa che si può comprare come in un supermercato: questo, di Hostel e seguiti, è il contenuto che fa riflettere. E la similitudine tra carnefici e vittime: gli assassini non cercano dei miserabili da tormentare (troppi ne troverebbero, nel paese impoverito in cui è ambientata la vicenda), ma uccidono i turisti che credono di avere tutto in pugno grazie ai soldi che portano in tasca: nel listino prezzi, gli americani sono le vittime che costano di più. E poiché in questa storia non si salva moralmente nessuno, la visione oltre che "orrenda" per i contenuti sanguinolenti è anche profondamente disturbante.


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