Nei lontani anni '80 Jennifer Connelly era ancora una ragazzina e David Bowie era ancora giovane e carismatico come non mai. Però, mentre lei posso aspettarmela in un film come questo, mi sono sempre domandato cosa ci facesse Bowie, in verità.
Ovviamente sto parlando di Labyrinth, che ho visto a spizzichi anni fa (completamente dimenticato, nel frattempo) e adesso ho avuto l'opportunità di vedere tutto intero per la prima volta. A dire il vero non avevo avuto fretta, in passato, perché era un film "troppo per bambini," e anche perché non ero un entusiasta dei Muppets (che, sotto varie spoglie fantasiose, compaiono qui con il loro creatore, Jim Henson, che fa anche da regista).
Il film l'ho rivalutato ma la storia non è un gran che oggi come non lo era allora (un avventura un po' stile Alice nel Paese delle Meraviglie, e tutta in un sogno). Devo anche ammettere che le colonne sonore roccheggianti (o comunque con musica evidentemente moderna) mi spiazzano un po' quando un film va sul fantastico, ma alla fine diciamo pure che ci sono parecchie scene divertenti e che, rispetto a tanta grafica al computer noiosa e ripetitiva di oggi, questi pupazzi creati con sana inventiva funzionano addirittura meglio. C'è immaginazione (le scene ispirate al lavoro di Escher le ho trovate piacevolissime), bei colori, veramente un bello spettacolo per i mezzi disponibili all'epoca.
E, forse perché sono diventato vecchiotto, non mi dà nessun fastidio il fatto che sia un film per bambini e ragazzi.
Ovviamente le storie ambientate nei sogni, poiché può semplicemente succedervi di tutto, non offrono una gran logica da seguire e in questo caso sappiamo anche tutti che andrà, in un modo o nell'altro, a finire bene. Non c'è neanche una "spalla" del protagonista che potrebbe finire male (e lei di sicuro ce la fa, ovviamente si salverà anche il bambino) pertanto tutto il gusto del film è ammirare le scenografie, i vari mostriciattoli e pupazzi, e la fantasia delle scene. Pertanto chi vuole una trama pregna di significati dovrà cercare da un'altra parte.
Nella foto: Jennifer Connelly (una foto recente, però).
domenica 30 gennaio 2011
domenica 23 gennaio 2011
L'Azteco
Iniziamo con l'ammettere che qui il fantastico non c'entra. Il libro si intitola L'Azteco e narra dei Mexica, o Aztechi, e di come vennero schiacciati dall'invasione di Cortes. Per me quegli eventi sono straordinariamente interessanti, come interessante era la cultura che venne spazzata via, perciò ho letto questo romanzo storico con piacere anche se di solito non apprezzo molto la categoria.
O meglio: se i personaggi e gli eventi reali compaiono poco o niente e stanno sullo sfondo, mi sta bene, se si mette in bocca a un persoanggio veramente esistito una frase che non ha detto, o gli vengono fatte compiere azioni che non ha compiuto, divento estremamente schizzinoso.
Questo romanzo storico in particolare, secondo me, soffre anche di altri problemi che, ammetto, sono frequenti e difficilmente evitabili: l'anacronismo del modo di parlare e di pensare è uno di essi.
Inoltre, nonostante l'autore sia senz'altro preparato, alcuni fatti storici sono modificati a favore della narrazione (male!) e avvengono una certa quantità di fatti improbabili.
Detto tutto questo, e nonostante siano difetti che soffro più di molti altri lettori, fondamentalmente mi sono goduto la lettura.
Gary Jennings, che pubblicò l'Azteco nel 1980, è morto nel 1999 poco dopo averne scritto un seguito. Dopo la sua morte l'opera ha avuto il mesto destino dei bestseller, venendo ulteriormente continuata da un altro scrittore. Quella che viene narrata in questo primo libro è la storia di Mixtli, la cui parabola parte da una località oscura, si sposta alla capitale Azteca (Tenochtitlan) e lo conduce in tutta una serie di viaggi, finché il nostro protagonista riuscirà a diventare nobile, per poi perdere tutto. Il libro è molto lungo (oltre 1000 pagine), un particolare che generalmente non mi è gradito. Devo però riconoscere che Jennings ha saputo creare un affresco di ampio respiro, un personaggio cui mi sono affezionato e che ho lasciato con dispiacere.
Il libro è strutturato in lettere, che sarebbero la fedele trascrizione di ciò che Mixtli racconta ai frati che ne raccolgono le memorie, accompagnate da una relazione del perfido vescovo Zumurraga, che spedisce questo materiale al sovrano spagnolo Carlo V, desideroso di sapere la storia di questo mondo che i suoi soldati hanno schiacciato.
Mixtli nasce prima dell'arrivo degli stranieri bianchi, e si segnala per la propria intelligenza e intraprendenza fin da bambino. Pur nascendo in una classe sociale che avrebbe dovuto escluderlo da certe conoscenze diventerà abile nella tecnica di scrittura assai particolare del suo mondo: ma le sue avventure sono spesso sfortunate e si farà anche dei nemici molto insistenti nel cercare di rovinarlo.
Ci sono anche scene di sesso di ogni genere e variazione, con il narratore che si diverte a tormentare le pudiche orecchie del vescovo e farlo fuggire infuriato: in effetti sembra proprio che il nostro azteco faccia apposta. O forse dovrei dire che fa apposta lo scrittore, a solleticare il lettore con questo eccesso di scene piccanti. Per me è una esagerazione.
Un altro aspetto dove l'azteco incontra lo sfavore inorridito dei frati che ne trascrivono le memorie è ovviamente quello della religione sanguinaria praticata dai sacerdoti del suo popolo. Mixtli tende a minimizzare e a trovare delle ragioni per quegli eccessi, e lascia chiaramente trasparire come la propria conversione al cristianesimo sia solo una superficiale convenienza. Poi mette spesso il dito nella piaga rivelando gli errori dei suoi nuovi padroni, e sottintende che i cristiani per tanti aspetti non sono meglio dei sacerdoti aztechi (attirandosi l'odio del vescovo).
In realtà, e qui Jennings forse ha qualche incertezza su come costruire il proprio personaggio, Mixtli odia i fanatismi dei preti messicani non meno dell'ipocrisia e pudicizia cristiana. Tuttavia (e non potrebbe essere diversamente) più o meno è un credente e segue la sua religione (che storicamente venne difesa dalla maggioranza del resto: l'orrore cristiano per i sacrifici umani spesso non era apprezzato nemmeno dalle vittime designate di tali sacrifici).
Manca purtroppo quello che forse non avrei dovuto nemmeno sperare di trovare: una credibile, convincente versione della visione del mondo di questo popolo che si era inventato divinità terrorizzanti, spietate, che chiedevano sangue a dismisura per concedere agli uomini di sopravvivere.
Jennings ha scritto un bel libro, si è ben documentato, ma non credo sia riuscito davvero a penetrare nella mente degli Aztechi.
O meglio: se i personaggi e gli eventi reali compaiono poco o niente e stanno sullo sfondo, mi sta bene, se si mette in bocca a un persoanggio veramente esistito una frase che non ha detto, o gli vengono fatte compiere azioni che non ha compiuto, divento estremamente schizzinoso.
Questo romanzo storico in particolare, secondo me, soffre anche di altri problemi che, ammetto, sono frequenti e difficilmente evitabili: l'anacronismo del modo di parlare e di pensare è uno di essi.
Inoltre, nonostante l'autore sia senz'altro preparato, alcuni fatti storici sono modificati a favore della narrazione (male!) e avvengono una certa quantità di fatti improbabili.
Detto tutto questo, e nonostante siano difetti che soffro più di molti altri lettori, fondamentalmente mi sono goduto la lettura.
Gary Jennings, che pubblicò l'Azteco nel 1980, è morto nel 1999 poco dopo averne scritto un seguito. Dopo la sua morte l'opera ha avuto il mesto destino dei bestseller, venendo ulteriormente continuata da un altro scrittore. Quella che viene narrata in questo primo libro è la storia di Mixtli, la cui parabola parte da una località oscura, si sposta alla capitale Azteca (Tenochtitlan) e lo conduce in tutta una serie di viaggi, finché il nostro protagonista riuscirà a diventare nobile, per poi perdere tutto. Il libro è molto lungo (oltre 1000 pagine), un particolare che generalmente non mi è gradito. Devo però riconoscere che Jennings ha saputo creare un affresco di ampio respiro, un personaggio cui mi sono affezionato e che ho lasciato con dispiacere.
Il libro è strutturato in lettere, che sarebbero la fedele trascrizione di ciò che Mixtli racconta ai frati che ne raccolgono le memorie, accompagnate da una relazione del perfido vescovo Zumurraga, che spedisce questo materiale al sovrano spagnolo Carlo V, desideroso di sapere la storia di questo mondo che i suoi soldati hanno schiacciato.
Mixtli nasce prima dell'arrivo degli stranieri bianchi, e si segnala per la propria intelligenza e intraprendenza fin da bambino. Pur nascendo in una classe sociale che avrebbe dovuto escluderlo da certe conoscenze diventerà abile nella tecnica di scrittura assai particolare del suo mondo: ma le sue avventure sono spesso sfortunate e si farà anche dei nemici molto insistenti nel cercare di rovinarlo.
Ci sono anche scene di sesso di ogni genere e variazione, con il narratore che si diverte a tormentare le pudiche orecchie del vescovo e farlo fuggire infuriato: in effetti sembra proprio che il nostro azteco faccia apposta. O forse dovrei dire che fa apposta lo scrittore, a solleticare il lettore con questo eccesso di scene piccanti. Per me è una esagerazione.
Un altro aspetto dove l'azteco incontra lo sfavore inorridito dei frati che ne trascrivono le memorie è ovviamente quello della religione sanguinaria praticata dai sacerdoti del suo popolo. Mixtli tende a minimizzare e a trovare delle ragioni per quegli eccessi, e lascia chiaramente trasparire come la propria conversione al cristianesimo sia solo una superficiale convenienza. Poi mette spesso il dito nella piaga rivelando gli errori dei suoi nuovi padroni, e sottintende che i cristiani per tanti aspetti non sono meglio dei sacerdoti aztechi (attirandosi l'odio del vescovo).
In realtà, e qui Jennings forse ha qualche incertezza su come costruire il proprio personaggio, Mixtli odia i fanatismi dei preti messicani non meno dell'ipocrisia e pudicizia cristiana. Tuttavia (e non potrebbe essere diversamente) più o meno è un credente e segue la sua religione (che storicamente venne difesa dalla maggioranza del resto: l'orrore cristiano per i sacrifici umani spesso non era apprezzato nemmeno dalle vittime designate di tali sacrifici).
Manca purtroppo quello che forse non avrei dovuto nemmeno sperare di trovare: una credibile, convincente versione della visione del mondo di questo popolo che si era inventato divinità terrorizzanti, spietate, che chiedevano sangue a dismisura per concedere agli uomini di sopravvivere.
Jennings ha scritto un bel libro, si è ben documentato, ma non credo sia riuscito davvero a penetrare nella mente degli Aztechi.
martedì 18 gennaio 2011
Le biblioteche devono fare politica?
Ci mancava solo che partisse una proposta, in quel di Venezia e dintorni, per far sparire dalle biblioteche i libri degli scrittori che firmarono una iniziativa a favore di Cesare Battisti, latitante in Brasile.
Del caso mi limito a dire che preferirei vedere quel personaggio scontare la sua pena in Italia; della scelta di quegli scrittori basti dire che ognuno firma le petizioni che vuole.
Trovo perciò sconfortante che si voglia creare contro di loro una sorta di censura punitiva, visto e considerato il ruolo pubblico che le biblioteche dovrebbero avere. Ruolo che per avere senso andrebbe interpretato con la maggiore apertura mentale possibile.
Non penso che alla fine qualcuno verrà davvero danneggiato da quest'iniziativa, che non mi sembra abbia grandissime possibilità di essere messa in atto, ma sarebe stato meglio che non fosse stata nemmeno proposta.
Del caso mi limito a dire che preferirei vedere quel personaggio scontare la sua pena in Italia; della scelta di quegli scrittori basti dire che ognuno firma le petizioni che vuole.
Trovo perciò sconfortante che si voglia creare contro di loro una sorta di censura punitiva, visto e considerato il ruolo pubblico che le biblioteche dovrebbero avere. Ruolo che per avere senso andrebbe interpretato con la maggiore apertura mentale possibile.
Non penso che alla fine qualcuno verrà davvero danneggiato da quest'iniziativa, che non mi sembra abbia grandissime possibilità di essere messa in atto, ma sarebe stato meglio che non fosse stata nemmeno proposta.
domenica 16 gennaio 2011
Gioca Torino
Ho fatto una capatina all'Incontro Nazionale degli Inventori di Giochi, che si è tenuto a Torino (è la settima edizione). Anzi a dire il vero nel momento in cui scrivo la manifestazione non è ancora chiusa.
Dei tre interventi ho assisito all'unico in programma oggi (Bruno Cathala e Vlaada Chvatil parlavano di creatività e giochi, moderatore Walter Obert).
L'occasione sarebbe stata più lieta se l'uscita del mio The Island non fosse stata rimandata a data da destinarsi causa la cessazione della collaborazione fra la AEG (americana) e la italianissima Dust Games. Così come stanno le cose, rimango quindi fra gli inventori di belle speranze.
La cosa più degna di nota oggi è stata la partecipazione degli interessati: la manifestazione era affollata di inventori coi loro vari prototipi: una visione veramente stimolante!
Per quanto riguarda la pubblicazione, mi sa che noi italiani siamo conciati un po' come con l'editoria: tanti si propongono, ma c'è posto per pochi. Contrariamente agli aspiranti scrittori, però, gli inventori di giochi hanno una scappatoia assai utile: dal momento che basta tradurre una mole piuttosto modesta di scritto per essere "internazionali", il mondo ludico italiano talvolta riesce a trovare la via della pubblicazione o della distribuzione tramite operatori stranieri. Il che, spero, dovrebbe essere in parte anche il mio caso.
Dei tre interventi ho assisito all'unico in programma oggi (Bruno Cathala e Vlaada Chvatil parlavano di creatività e giochi, moderatore Walter Obert).
L'occasione sarebbe stata più lieta se l'uscita del mio The Island non fosse stata rimandata a data da destinarsi causa la cessazione della collaborazione fra la AEG (americana) e la italianissima Dust Games. Così come stanno le cose, rimango quindi fra gli inventori di belle speranze.
La cosa più degna di nota oggi è stata la partecipazione degli interessati: la manifestazione era affollata di inventori coi loro vari prototipi: una visione veramente stimolante!
Per quanto riguarda la pubblicazione, mi sa che noi italiani siamo conciati un po' come con l'editoria: tanti si propongono, ma c'è posto per pochi. Contrariamente agli aspiranti scrittori, però, gli inventori di giochi hanno una scappatoia assai utile: dal momento che basta tradurre una mole piuttosto modesta di scritto per essere "internazionali", il mondo ludico italiano talvolta riesce a trovare la via della pubblicazione o della distribuzione tramite operatori stranieri. Il che, spero, dovrebbe essere in parte anche il mio caso.
sabato 15 gennaio 2011
Hack and Slash!!
Ci sono dei giochi che riprendono nicchie trascurate, e fra questi una linea che riprende il gioco di ruolo così com'era negli anni '70:
"Vi ricordate i bei vecchi tempi, quando le avventure erano nei sotterranei, i personaggi non giocanti esistevano per essere uccisi, e il finale di ogni sotterraneo era l'incontro con il drago del ventesimo livello? Quei giorni sono tornati."
Sono tornati con la serie di Dungeon Crawl, che intende riproporre con regole più moderne uno stile di gioco di trenta e rotti anni fa.
Di solito amo i revival, stavolta mi chiedo se ne valesse la pena...
"Vi ricordate i bei vecchi tempi, quando le avventure erano nei sotterranei, i personaggi non giocanti esistevano per essere uccisi, e il finale di ogni sotterraneo era l'incontro con il drago del ventesimo livello? Quei giorni sono tornati."
Sono tornati con la serie di Dungeon Crawl, che intende riproporre con regole più moderne uno stile di gioco di trenta e rotti anni fa.
Di solito amo i revival, stavolta mi chiedo se ne valesse la pena...
Ebook a colori
Questo lettore è a colori, più o meno sembra avere un display riposante, e si può usare per prendere appunti.
Non costa pochissimo, ma c'è da dire che la tecnologia di questi oggettini sta facendo dei grandi passi avanti...
Non costa pochissimo, ma c'è da dire che la tecnologia di questi oggettini sta facendo dei grandi passi avanti...
Prequel? mica tanto
Se siete appassionati di fantascienza la domanda magari ve la siete già posta: cosa si sarà inventato Ridley Scott per fare un prequel di Alien? La storia comincia con gli sventurati astronauti del mercantile che incappano nella nave extraterrestre piena di uova dell'alieno. Come si fa a farne un prequel? Sembrava incredibile fin da subito, che Scott volesse fare la storia di questa astronave... In realtà sarebbe magari una bella idea ma dubito che qualcuno scommetterebbe grosse cifre per produrre una storia simile. E allora mi rimaneva il dubbio. Non voglio darmi arie da veggente, ma il mio scetticismo sembra confermato dalle ultime notizie: il processo creativo ha spinto altrove le intenzioni di Scott. Dalle parole del regista sembra che il film "ricorderà" la storia di Alien, o sarà un'espansione di ampio respiro dell'universo in cui la vecchia serie si è mossa, ma non si parla più di farne un prequel vero e proprio. Nuovo titolo (Prometheus?) e nuovi personaggi. E sembra che ci saranno un paio di attrici molto carine...
(la fonte è qui, per gli anglofoni).
(la fonte è qui, per gli anglofoni).
mercoledì 12 gennaio 2011
Women & Revolution in Yugoslavia
Provocazione: quando una donna partecipa a una guerra di liberazione, dovrebbe chiedersi: la liberazione di chi?
Il caso che prendo in esame in questa occasione è quello della lotta partigiana in Yugoslavia. In questa occasione le donne combattenti si trovarono a combattere contro un invasore esterno (i vari paesi dell'Asse componenti le forze di occupazione: Italia, Germania, Ungheria, Bulgaria) e contro le varie milizie locali portatrici di ideologie conservatrici o anche non molto diverse dal fascismo. Si trattò allo stesso tempo di un'affermazione femminista, di una rivoluzione (comunismo) e di una lotta nazionalista (contro le forze che volevano disgregare la Yugoslavia).
Il libro su cui mi sono basato è Women & Revolution in Yugoslavia di Barbara Jancar-Webster (editore: Arden Press), ed è del 1990: le osservazioni che fa sulla società Yugoslava le ritengo abbastanza datate perché sono state espresse appena prima dell'ondata che ha spazzato via questo stato ex-comunista, cui sono succedute varie repubbliche indipendenti. Abbonda di analisi statistiche fatte su campioni un po' troppo modesti, e ricerche su testi che parlano solo di donne aderenti all'ideologia comunista allora dominante. Presenta tuttavia un certo numero di riflessioni interessanti.
In Yugoslavia, paese estremamente arretrato da tutti i punti di vista, la guerra ha portato le donne improvvisamente nella società, ma in termini maschili, ha dato loro consapevolezza, ma non in maniera da poter cambiare valori e istituzioni. Per capire questo passaggio l'autrice si rifà agli schemi elaborati da due studiose della storia delle donne (da un punto di vista di genere), Gerda Lerner e Kathryn Sklar, individuando quattro stadi di consapevolezza femminile:
1- Sapere di aver subito un torto collettivo
2- Cercare di realizzare cambiamenti sociali, politici ed economici con iniziative sia individuali che collettive
3- Lo sviluppo di forme culturali specifiche delle donne, se necessario autosegregandosi dagli uomini (questo punto poco realizzabile nei paesi socialisti, dove una simile libertà è impensabile)
4- Realizzare nuovi modi del vivere (pensare, agire) concependo il mondo come centrato sulla donna
Le donne in Yugoslavia per mezzo della lotta partigiana sono divenute consapevoli del primo punto, ma non hanno avuto l'acume politico e organizzativo che sarebbe servito per prendersi maggior potere dopo il conflitto.
Per la Jancar la rinascita femminista degli anni '70 (con la consapevolezza che le donne non erano libere nemmeno sotto il comunismo: che sorpresa, eh?) sarebbe la continuazione delle aspettative innescate con il finire della guerra. Non ho elementi per contraddire la tesi (non sapendo nulla del femminismo in Yugoslavia negli anni '70 e oltre), ma neanche motivi per crederci: mi sembra più facile pensare che sia stato un vento venuto da occidente a far rinascere certe aspirazioni. Forse la Jancar è stata influenzata dai contatti con le "intellettuali" del movimento, che in parte erano le stesse donne che avevano combattuto in guerra 30 anni prima. Peraltro, ironia della storia, proprio la nazione che era stata teatro di una partecipazione femminile così importante è stata dilaniata da un conflitto dove lo stupro etnico e la violenza sul corpo delle donne sono stati i mezzi con cui una comunità sgomitava contro l'altra per il possesso del territorio.
Ma torniamo alla lotta partigiana, cominciando da alcune cose da sapere sulla resistenza in Yugoslavia: la nazione si era formata con l'unione di alcune piccole entità (ci sono note oggi in forma di nuovi stati sovrani) che non si volevano affatto bene e che differivano su diversi aspetti sociali, culturali e religiosi. L'unione si rendeva necessaria per contare qualcosa in un paesaggio molto burrascoso, quello dei Balcani.
Dopo l'occupazione da parte di Italiani e Tedeschi il paese è "esploso" in una guerra di tutti contro tutti sia per queste differenze preesistenti, sia per la difficoltà del terreno che impedì ai conquistatori di imporsi definitivamente, sia per l'influenza del comunismo: pochi mesi dopo l'occupazione della Yugoslavia scattò l'attacco contro la Russia e Stalin per reazione incoraggiò l'attivarsi di un movimento di resistenza comunista (che aveva già delle strutture collaudate, visto che il partito era messo al bando da prima del conflitto). Altri movimenti molto forti erano quello dei Cetnici serbi e degli Ustascia croati. Entrambi interessati all'affermazione della propria etnia, entrambi strumentalizzati dai paesi dell'Asse, entrambi colpevoli di enormi massacri contro gli altri popoli.
Il movimento di resistenza comunista riuscì a prevalere e a guadagnare consensi sia per le promesse di cambiamenti sociali (creazione di un mondo nuovo ecc...) sia per la riaffermazione del carattere nazionale della lotta contro coloro che combattevano per le proprie piccole patrie, sia per la tolleranza religiosa (promessa poi mantenuta solo in parte). Peraltro aggredì così decisamente le forze dell'Asse da causare spaventose rappresaglie e un carattere di guerra di sterminio forse peggiore di quello che si vide in Russia.
Le donne vennero inquadrate solo inizialmente in unità di sole donne, poi mescolate agli uomini. Per lo più erano giovanissime anche sotto i 20 anni: aderivano d'istinto, attratte dall'idea del cameratismo e della lotta. Spesso ignoranti contadine (come la maggior parte della popolazione), spesso spinte alla lotta dalla distruzione degli affetti, della casa e della comunità, tema che vediamo spesso nel retroterra delle donne combattenti e peraltro motivazione che aveva spinto già in passato le donne di Macedonia e Montenegro a combattere i Turchi, in una lotta non meno spietata della Seconda Guerra Mondiale.
Le combattenti furono circa centomila e le due mansioni principali furono quelle di infermiere e combattenti di prima linea. Se la prima non era un'occupazione priva di rischi, la seconda portava spesso alla morte nel giro di qualche settimana, magari alla prima battaglia. Molte rimasero sterili per le privazioni sofferte. La mortalità del 25% resta comunque al di sotto di quella dei partigiani maschi (38%).
Sul campo c'era uguaglianza e veniva imposta una stretta moralità. Questo contrasta con la percezione che nelle zone più tradizionali del paese (ad es. musulmane) si aveva della drugariza (ovvero compagna: la partigiana comunista), vista come poco femminile e promiscua. In realtà nei ranghi superiori e nei comandi questa moralità comunista veniva meno, tra amanti, belle segretarie per i leader, ecc...
Le donne partigiane yugoslave sono state accusate di atrocità indicibili e di provar piacere a uccidere, ma del resto ciò si inquadra nel tipo di guerra che si svolse in quel periodo.
Politicamente le donne avevano il loro inquadramento in un fronte femminile antifascista (AFZ), ma verso la fine del conflitto Tito decapitò questo movimento inquadrandone la leadership nel partito comunista, affermando che era necessario soprattutto mobilitare le risorse delle vaste zone che erano state liberate e cominciare a coordinare la ricostruzione (politica e materiale) per il dopoguerra. Non so quanto questa leadership femminile avrebbe potuto influenzare la Yugoslavia del dopoguerra, va detto comunque che trattandosi di un paese comunista autonomo e non di un satellite dell'URSS, forse avremmo potuto vedere delle cose sorprendenti.
Non fu così. Tito era contro le donne? Non proprio, anzi le incoraggiò a prendere responsabilità in politica e sul lavoro. Quello che non voleva era il sopravvivere dell'AFZ, una organizzazione di done inquadrata dalle donne: sarebbe stato come ammettere che il comunismo non andava bene per loro. Comunque sia, la guerra fu un acceleratore potentissimo per il progresso delle donne in Yugoslavia e la principale promessa di Tito (dare uguali diritti civili) venne mantenuta.
Ma dentro il partito i problemi femminili non si posero più, e i ruoli di potere per le donne rimasero limitati. E col senno di poi sappiamo anche che, quando l'autrice di questo libro ipotizzava che la fine del periodo comunista avrebbe aperto nuove opportunità per il femminismo, quello che si preparava invece era il delirio etnocentrico dei vari popoli yugoslavi.
Pur non essendo particolarmente incline al femminismo (e pur pensando che nel caso in questione difficilmente le cose sarebbero potute andare in un altro modo) trovo che la domanda iniziale di questo libro sia interessante: le rivoluzioni significano qualcosa di diverso per uomini e donne? E perché?
Il caso che prendo in esame in questa occasione è quello della lotta partigiana in Yugoslavia. In questa occasione le donne combattenti si trovarono a combattere contro un invasore esterno (i vari paesi dell'Asse componenti le forze di occupazione: Italia, Germania, Ungheria, Bulgaria) e contro le varie milizie locali portatrici di ideologie conservatrici o anche non molto diverse dal fascismo. Si trattò allo stesso tempo di un'affermazione femminista, di una rivoluzione (comunismo) e di una lotta nazionalista (contro le forze che volevano disgregare la Yugoslavia).
Il libro su cui mi sono basato è Women & Revolution in Yugoslavia di Barbara Jancar-Webster (editore: Arden Press), ed è del 1990: le osservazioni che fa sulla società Yugoslava le ritengo abbastanza datate perché sono state espresse appena prima dell'ondata che ha spazzato via questo stato ex-comunista, cui sono succedute varie repubbliche indipendenti. Abbonda di analisi statistiche fatte su campioni un po' troppo modesti, e ricerche su testi che parlano solo di donne aderenti all'ideologia comunista allora dominante. Presenta tuttavia un certo numero di riflessioni interessanti.
In Yugoslavia, paese estremamente arretrato da tutti i punti di vista, la guerra ha portato le donne improvvisamente nella società, ma in termini maschili, ha dato loro consapevolezza, ma non in maniera da poter cambiare valori e istituzioni. Per capire questo passaggio l'autrice si rifà agli schemi elaborati da due studiose della storia delle donne (da un punto di vista di genere), Gerda Lerner e Kathryn Sklar, individuando quattro stadi di consapevolezza femminile:
1- Sapere di aver subito un torto collettivo
2- Cercare di realizzare cambiamenti sociali, politici ed economici con iniziative sia individuali che collettive
3- Lo sviluppo di forme culturali specifiche delle donne, se necessario autosegregandosi dagli uomini (questo punto poco realizzabile nei paesi socialisti, dove una simile libertà è impensabile)
4- Realizzare nuovi modi del vivere (pensare, agire) concependo il mondo come centrato sulla donna
Le donne in Yugoslavia per mezzo della lotta partigiana sono divenute consapevoli del primo punto, ma non hanno avuto l'acume politico e organizzativo che sarebbe servito per prendersi maggior potere dopo il conflitto.
Per la Jancar la rinascita femminista degli anni '70 (con la consapevolezza che le donne non erano libere nemmeno sotto il comunismo: che sorpresa, eh?) sarebbe la continuazione delle aspettative innescate con il finire della guerra. Non ho elementi per contraddire la tesi (non sapendo nulla del femminismo in Yugoslavia negli anni '70 e oltre), ma neanche motivi per crederci: mi sembra più facile pensare che sia stato un vento venuto da occidente a far rinascere certe aspirazioni. Forse la Jancar è stata influenzata dai contatti con le "intellettuali" del movimento, che in parte erano le stesse donne che avevano combattuto in guerra 30 anni prima. Peraltro, ironia della storia, proprio la nazione che era stata teatro di una partecipazione femminile così importante è stata dilaniata da un conflitto dove lo stupro etnico e la violenza sul corpo delle donne sono stati i mezzi con cui una comunità sgomitava contro l'altra per il possesso del territorio.
Ma torniamo alla lotta partigiana, cominciando da alcune cose da sapere sulla resistenza in Yugoslavia: la nazione si era formata con l'unione di alcune piccole entità (ci sono note oggi in forma di nuovi stati sovrani) che non si volevano affatto bene e che differivano su diversi aspetti sociali, culturali e religiosi. L'unione si rendeva necessaria per contare qualcosa in un paesaggio molto burrascoso, quello dei Balcani.
Dopo l'occupazione da parte di Italiani e Tedeschi il paese è "esploso" in una guerra di tutti contro tutti sia per queste differenze preesistenti, sia per la difficoltà del terreno che impedì ai conquistatori di imporsi definitivamente, sia per l'influenza del comunismo: pochi mesi dopo l'occupazione della Yugoslavia scattò l'attacco contro la Russia e Stalin per reazione incoraggiò l'attivarsi di un movimento di resistenza comunista (che aveva già delle strutture collaudate, visto che il partito era messo al bando da prima del conflitto). Altri movimenti molto forti erano quello dei Cetnici serbi e degli Ustascia croati. Entrambi interessati all'affermazione della propria etnia, entrambi strumentalizzati dai paesi dell'Asse, entrambi colpevoli di enormi massacri contro gli altri popoli.
Il movimento di resistenza comunista riuscì a prevalere e a guadagnare consensi sia per le promesse di cambiamenti sociali (creazione di un mondo nuovo ecc...) sia per la riaffermazione del carattere nazionale della lotta contro coloro che combattevano per le proprie piccole patrie, sia per la tolleranza religiosa (promessa poi mantenuta solo in parte). Peraltro aggredì così decisamente le forze dell'Asse da causare spaventose rappresaglie e un carattere di guerra di sterminio forse peggiore di quello che si vide in Russia.
Le donne vennero inquadrate solo inizialmente in unità di sole donne, poi mescolate agli uomini. Per lo più erano giovanissime anche sotto i 20 anni: aderivano d'istinto, attratte dall'idea del cameratismo e della lotta. Spesso ignoranti contadine (come la maggior parte della popolazione), spesso spinte alla lotta dalla distruzione degli affetti, della casa e della comunità, tema che vediamo spesso nel retroterra delle donne combattenti e peraltro motivazione che aveva spinto già in passato le donne di Macedonia e Montenegro a combattere i Turchi, in una lotta non meno spietata della Seconda Guerra Mondiale.
Le combattenti furono circa centomila e le due mansioni principali furono quelle di infermiere e combattenti di prima linea. Se la prima non era un'occupazione priva di rischi, la seconda portava spesso alla morte nel giro di qualche settimana, magari alla prima battaglia. Molte rimasero sterili per le privazioni sofferte. La mortalità del 25% resta comunque al di sotto di quella dei partigiani maschi (38%).
Sul campo c'era uguaglianza e veniva imposta una stretta moralità. Questo contrasta con la percezione che nelle zone più tradizionali del paese (ad es. musulmane) si aveva della drugariza (ovvero compagna: la partigiana comunista), vista come poco femminile e promiscua. In realtà nei ranghi superiori e nei comandi questa moralità comunista veniva meno, tra amanti, belle segretarie per i leader, ecc...
Le donne partigiane yugoslave sono state accusate di atrocità indicibili e di provar piacere a uccidere, ma del resto ciò si inquadra nel tipo di guerra che si svolse in quel periodo.
Politicamente le donne avevano il loro inquadramento in un fronte femminile antifascista (AFZ), ma verso la fine del conflitto Tito decapitò questo movimento inquadrandone la leadership nel partito comunista, affermando che era necessario soprattutto mobilitare le risorse delle vaste zone che erano state liberate e cominciare a coordinare la ricostruzione (politica e materiale) per il dopoguerra. Non so quanto questa leadership femminile avrebbe potuto influenzare la Yugoslavia del dopoguerra, va detto comunque che trattandosi di un paese comunista autonomo e non di un satellite dell'URSS, forse avremmo potuto vedere delle cose sorprendenti.
Non fu così. Tito era contro le donne? Non proprio, anzi le incoraggiò a prendere responsabilità in politica e sul lavoro. Quello che non voleva era il sopravvivere dell'AFZ, una organizzazione di done inquadrata dalle donne: sarebbe stato come ammettere che il comunismo non andava bene per loro. Comunque sia, la guerra fu un acceleratore potentissimo per il progresso delle donne in Yugoslavia e la principale promessa di Tito (dare uguali diritti civili) venne mantenuta.
Ma dentro il partito i problemi femminili non si posero più, e i ruoli di potere per le donne rimasero limitati. E col senno di poi sappiamo anche che, quando l'autrice di questo libro ipotizzava che la fine del periodo comunista avrebbe aperto nuove opportunità per il femminismo, quello che si preparava invece era il delirio etnocentrico dei vari popoli yugoslavi.
Pur non essendo particolarmente incline al femminismo (e pur pensando che nel caso in questione difficilmente le cose sarebbero potute andare in un altro modo) trovo che la domanda iniziale di questo libro sia interessante: le rivoluzioni significano qualcosa di diverso per uomini e donne? E perché?
venerdì 7 gennaio 2011
Vecchi film da rivedere (off topic)
Lasciando da parte i film relativi al fantastico, provo a fare una carrellata di titoli che ho trovato interessanti negli anni. Qualcuno famoso, e diversi no, anzi forse di alcuni a malapena avete sentito parlare: ma se vi ritrovate almeno un po' nei miei gusti, potreste scoprire qualche bel film da recuperare.
El Alamein la Linea del Fuoco di Monteleone è un film italiano che con un modesto budget cerca di offrire un punto di vista sulla famosa battaglia. Le scene dove servivano i mezzi militari (carri armati ecc...) sono abbastanza penose, ma il film è molto bello. Se vi piacciono i film di guerra ovviamente.
Flags of our Fathers il buon Clint Eastwood, ex ispettore Callahan (Callaghan in Italia) una volta era ritenuto personaggio reazionario per eccellenza (beh, uno dei tanti, diciamo), però deve essere cambiato invecchiando. Questo film narra tutta l'ipocrisia dietro i meccanismi della propaganda, e la fine triste di alcuni "eroi" dopo la guerra. Esagera sullo strappalacrime ma è comunque di una potenza espressiva incredibile. Depressivo, però. Mi ci è voluta mezza bottiglia di vodka per riuscire a finirlo.
La Croce di Ferro di Sam Peckinpah è un truce e realistico film degli anni '70 sulla seconda guerra mondiale: il regista indulge nelle scene di strage con un montaggio allucinato e le sue famose scene al rallentatore, e rappresenta una sfida tra l'ufficiale aristocratico (a caccia di decorazioni senza però alcuna voglia di farsi male) e il sergentaccio proletario (che disprezza la divisa, però conosce il mestiere). Ma secondo me il tracollo della Wehrmacht e la fine delle illusioni di conquista rubano la scena e diventano, da scenario di sottofondo, il vero tema del film.
La Rosa Bianca - Sophie Scholl
Film tedesco del 2005 sul movimento di resistenza giovanile della Rosa Bianca è una descrizione (più accurata possibile, con l'uso di documenti fino a poco tempo fa sepolti negli archivi della Germania Est) degli ultimi giorni di Sophie Scholl, anzi il titolo originale tradotto in italiano suonerebbe proprio "Sophie Scholl - Gli ultimi giorni". L'attenzione maggiore è basata su questo personaggio anche se non era la leader del gruppo (piuttosto era il fratello). Il film è molto intenso, a mio parere da vedere assolutamente, anche se per molti aspetti convenzionale nei ritmi e nello svolgimento. Non c'è quasi nulla purtroppo sul contesto in cui questo movimento si è creato o sulla vita di questi personaggi prima della loro cattura, anche perché un altro film tedesco sulla Rosa Bianca aveva narrato gli stessi eventi partendo da molto più lontano. Solo un accenno all'eredità del gruppo: i volantini che costarono la vita a questi giovani vennero ristampati e lanciati in grande stile dagli Alleati sulla Germania con gli aerei. Ma erano gli stessi Alleati che non avevano mai aperto seri contatti con la resistenza tedesca e che, con la dichiarata intenzione di ridurre la Germania a uno stato povero e deindustrializzato in perpetua schiavitù, avevano cementato il popolo tedesco attorno alla leadership di Hitler, come unica salvezza possibile.
Salò o le 120 Giornate di Sodoma questo vecchio e controverso film di Pasolini è estremamente particolare, sconcertante, bizzarro. Quali che siano le vostre aspettative intellettuali, non illudetevi però di vedere nulla di eccitante, e tantomeno del raffinato erotismo, bensì tantissime scene repellenti, tra schifezze di ogni genere
Fight Club La prima regola del fight club è: non parlare del fight club... film del '99, una pellicola che rompe gli schemi, tratta da un libro che fa altrettanto. Per certi aspetti non sembra nemmeno un film americano, ma qui sto facendo parlare i miei pregiudizi. Satira sociale, satira sul sistema della pubblicità e sull'alienazione, ribellione che non trova una risposta e si sfoga con atti insensati o masochistici... fino a che non salta fuori che qualcuno ha un piano per far saltare tutto il sistema... roba fuori di testa ovviamente, ma fa riflettere: soprattutto, sul fatto che probabilmente ti sentirai almeno in parte dalla parte del piano. Il film ovviamente a quel punto si divide nei due punti di vista contrastanti: perché? Beh, è da vedere per capirlo. Un film consigliato soprattutto ai maschietti, ovviamente...
Le Vite degli Altri è un film che ha avuto poca risonanza da noi ma parecchia all'estero e ovviamente in Germania, dove è ambientata la vicenda. Esiste un elemento, diciamo, "fantastico:" un funzionario della Stasi (servizi segreti) che decide di proteggere un artista anziché distruggerlo, come vorrebbe un potente che concupisce la sua donna (una attrice). Una storia tutta da vedere che percorre le tappe dell'agonia della DDR, una storia di oppressione e libertà strangolata, di coraggio, opportunismo e terrore, di squallore e rassegnazione. Poi c'è anche la gente che rimpiange i "bei tempi" (in Germania la chiamano Ostalgie, e poiché Ost significa Est si capisce facilmente il gioco di parole), ma da questo film ho avuto confermate le mie impressioni di viaggio: ovvero che a vivere in quei regimi uno doveva sentirsi l'anima schiacciata giorno dopo giorno...
Fucking Åmål di Moodysson. Se sono comparsi dei caratteri incomprensibili sul vostro schermo, ve lo riscrivo senza le lettere svedesi: Fucking Amal. Poverini gli abitanti: la loro città è stata scelta dal regista Moodysson come prototipo del paesotto di provincia dove non succede mai niente. Qui vi ha collocato una storia di amore gay tra due giovanissime, scegliendo come protagoniste (birbante birbante) due simpatiche attrici molto accattivanti, carine e brave.
Agnes è triste, isolata e consapevole di essere lesbica: ama Elin, una ragazza popolare a scuola ma insoddisfatta di tutto, e che a malapena la conosce. Elin raggiunge faticosamente la sua consapevolezza e affronta la dura prova del distacco dal gruppo (uno poi si chiede: sai che fatica, tra ragazzi immaturi, le classiche amiche stronze ecc...) e dell'affermazione della propria identità. Inizio lento con alcune scene abbastanza cliché, ma grande storia.
Come te nessuno mai di Muccino; incredibile: un film italiano che parla di politica, scuola, adolescenti, contestazione ecc... e pur non essendo certo un capolavoro non è una cazzata folle! Solo per questo val la pena di vederlo. Peccato però per la parlata romanesca di tutti quanti.
Diritti civili, lotte civili ecc...
Visto che c'è Charlize Teron (e con quel film ha vinto pure l'Oscar) immagino che abbiate già visto Monster con la sua tematica (fra l'altro) sulla pena di morte.
Un altro da vedere assolutamente: Dead man walking (quello del 1995 con Susan Sarandon e Sean Penn). Non è roba proprio leggerissima: lei è una suora che si offre di fare da consigliere spirituale per un condannato a morte. Lui, che aspetta da anni il giorno dell'esecuzione, accetta. Ma è uno sbruffone che non ammette i crimini che ha commesso, per lui il cammino del pentimento sarà difficile. Un film duro e senza compromessi, performance da Oscar per Sean Penn (ma non glielo diedero).
Più o meno nello stesso periodo è uscito un altro film con simile tema: Difesa ad Oltranza (Last Dance) con Sharon Stone nel ruolo della (condannata) protagonista. Non mi dispiacque, ma come profondità e maturità nel trattamento del tema questa pellicola non ce la fa proprio a reggere il paragone con Dead Man Walking.
Concluderei con Bloody Sunday, imperdibile film sulla "domenica di sangue" del 1972 in Irlanda del Nord.
Guerra e Storia
El Alamein la Linea del Fuoco di Monteleone è un film italiano che con un modesto budget cerca di offrire un punto di vista sulla famosa battaglia. Le scene dove servivano i mezzi militari (carri armati ecc...) sono abbastanza penose, ma il film è molto bello. Se vi piacciono i film di guerra ovviamente.
Flags of our Fathers il buon Clint Eastwood, ex ispettore Callahan (Callaghan in Italia) una volta era ritenuto personaggio reazionario per eccellenza (beh, uno dei tanti, diciamo), però deve essere cambiato invecchiando. Questo film narra tutta l'ipocrisia dietro i meccanismi della propaganda, e la fine triste di alcuni "eroi" dopo la guerra. Esagera sullo strappalacrime ma è comunque di una potenza espressiva incredibile. Depressivo, però. Mi ci è voluta mezza bottiglia di vodka per riuscire a finirlo.
La Croce di Ferro di Sam Peckinpah è un truce e realistico film degli anni '70 sulla seconda guerra mondiale: il regista indulge nelle scene di strage con un montaggio allucinato e le sue famose scene al rallentatore, e rappresenta una sfida tra l'ufficiale aristocratico (a caccia di decorazioni senza però alcuna voglia di farsi male) e il sergentaccio proletario (che disprezza la divisa, però conosce il mestiere). Ma secondo me il tracollo della Wehrmacht e la fine delle illusioni di conquista rubano la scena e diventano, da scenario di sottofondo, il vero tema del film.
La Rosa Bianca - Sophie Scholl
Film tedesco del 2005 sul movimento di resistenza giovanile della Rosa Bianca è una descrizione (più accurata possibile, con l'uso di documenti fino a poco tempo fa sepolti negli archivi della Germania Est) degli ultimi giorni di Sophie Scholl, anzi il titolo originale tradotto in italiano suonerebbe proprio "Sophie Scholl - Gli ultimi giorni". L'attenzione maggiore è basata su questo personaggio anche se non era la leader del gruppo (piuttosto era il fratello). Il film è molto intenso, a mio parere da vedere assolutamente, anche se per molti aspetti convenzionale nei ritmi e nello svolgimento. Non c'è quasi nulla purtroppo sul contesto in cui questo movimento si è creato o sulla vita di questi personaggi prima della loro cattura, anche perché un altro film tedesco sulla Rosa Bianca aveva narrato gli stessi eventi partendo da molto più lontano. Solo un accenno all'eredità del gruppo: i volantini che costarono la vita a questi giovani vennero ristampati e lanciati in grande stile dagli Alleati sulla Germania con gli aerei. Ma erano gli stessi Alleati che non avevano mai aperto seri contatti con la resistenza tedesca e che, con la dichiarata intenzione di ridurre la Germania a uno stato povero e deindustrializzato in perpetua schiavitù, avevano cementato il popolo tedesco attorno alla leadership di Hitler, come unica salvezza possibile.
Strani, stravaganti e pazzeschi
Salò o le 120 Giornate di Sodoma questo vecchio e controverso film di Pasolini è estremamente particolare, sconcertante, bizzarro. Quali che siano le vostre aspettative intellettuali, non illudetevi però di vedere nulla di eccitante, e tantomeno del raffinato erotismo, bensì tantissime scene repellenti, tra schifezze di ogni genere
Fight Club La prima regola del fight club è: non parlare del fight club... film del '99, una pellicola che rompe gli schemi, tratta da un libro che fa altrettanto. Per certi aspetti non sembra nemmeno un film americano, ma qui sto facendo parlare i miei pregiudizi. Satira sociale, satira sul sistema della pubblicità e sull'alienazione, ribellione che non trova una risposta e si sfoga con atti insensati o masochistici... fino a che non salta fuori che qualcuno ha un piano per far saltare tutto il sistema... roba fuori di testa ovviamente, ma fa riflettere: soprattutto, sul fatto che probabilmente ti sentirai almeno in parte dalla parte del piano. Il film ovviamente a quel punto si divide nei due punti di vista contrastanti: perché? Beh, è da vedere per capirlo. Un film consigliato soprattutto ai maschietti, ovviamente...
Politici, sociali
Le Vite degli Altri è un film che ha avuto poca risonanza da noi ma parecchia all'estero e ovviamente in Germania, dove è ambientata la vicenda. Esiste un elemento, diciamo, "fantastico:" un funzionario della Stasi (servizi segreti) che decide di proteggere un artista anziché distruggerlo, come vorrebbe un potente che concupisce la sua donna (una attrice). Una storia tutta da vedere che percorre le tappe dell'agonia della DDR, una storia di oppressione e libertà strangolata, di coraggio, opportunismo e terrore, di squallore e rassegnazione. Poi c'è anche la gente che rimpiange i "bei tempi" (in Germania la chiamano Ostalgie, e poiché Ost significa Est si capisce facilmente il gioco di parole), ma da questo film ho avuto confermate le mie impressioni di viaggio: ovvero che a vivere in quei regimi uno doveva sentirsi l'anima schiacciata giorno dopo giorno...
Giovanili
Fucking Åmål di Moodysson. Se sono comparsi dei caratteri incomprensibili sul vostro schermo, ve lo riscrivo senza le lettere svedesi: Fucking Amal. Poverini gli abitanti: la loro città è stata scelta dal regista Moodysson come prototipo del paesotto di provincia dove non succede mai niente. Qui vi ha collocato una storia di amore gay tra due giovanissime, scegliendo come protagoniste (birbante birbante) due simpatiche attrici molto accattivanti, carine e brave.
Agnes è triste, isolata e consapevole di essere lesbica: ama Elin, una ragazza popolare a scuola ma insoddisfatta di tutto, e che a malapena la conosce. Elin raggiunge faticosamente la sua consapevolezza e affronta la dura prova del distacco dal gruppo (uno poi si chiede: sai che fatica, tra ragazzi immaturi, le classiche amiche stronze ecc...) e dell'affermazione della propria identità. Inizio lento con alcune scene abbastanza cliché, ma grande storia.
Come te nessuno mai di Muccino; incredibile: un film italiano che parla di politica, scuola, adolescenti, contestazione ecc... e pur non essendo certo un capolavoro non è una cazzata folle! Solo per questo val la pena di vederlo. Peccato però per la parlata romanesca di tutti quanti.
Diritti civili, lotte civili ecc...
Visto che c'è Charlize Teron (e con quel film ha vinto pure l'Oscar) immagino che abbiate già visto Monster con la sua tematica (fra l'altro) sulla pena di morte.
Un altro da vedere assolutamente: Dead man walking (quello del 1995 con Susan Sarandon e Sean Penn). Non è roba proprio leggerissima: lei è una suora che si offre di fare da consigliere spirituale per un condannato a morte. Lui, che aspetta da anni il giorno dell'esecuzione, accetta. Ma è uno sbruffone che non ammette i crimini che ha commesso, per lui il cammino del pentimento sarà difficile. Un film duro e senza compromessi, performance da Oscar per Sean Penn (ma non glielo diedero).
Più o meno nello stesso periodo è uscito un altro film con simile tema: Difesa ad Oltranza (Last Dance) con Sharon Stone nel ruolo della (condannata) protagonista. Non mi dispiacque, ma come profondità e maturità nel trattamento del tema questa pellicola non ce la fa proprio a reggere il paragone con Dead Man Walking.
Concluderei con Bloody Sunday, imperdibile film sulla "domenica di sangue" del 1972 in Irlanda del Nord.
sabato 1 gennaio 2011
Warbreaker
Di Brandon Sanderson non avevo letto niente, sapevo che era stato scelto per continuare l'opera di Robert Jordan (che è morto senza poter terminare la sua serie La Ruota del Tempo, come saprete). Dagli appunti e dalle istruzioni che Jordan aveva lasciato per far sì che la serie potesse avere fine, per mezzo della penna di un altro scrittore, è saltato fuori che si possono fare due volumi, non un solo volume finale. Poi, anzi, sono diventati tre. Io su questa proliferazione da fabbrica di bestseller penso tutto il male possibile, e ciò non mi rende particolarmente incline ad apprezzare Sanderson, ma avendo letto che il nostro scrittore si era fatto già comunque una fama per conto proprio, ero curioso di leggere qualcosa di suo.
Fatta questa premessa non potevo perdermi Warbreaker, un libro autoconclusivo (per ora non uscito in italiano) che poteva permettermi di assaggiare l'opera di Sanderson senza beccarmi una trilogia. A dire il vero ci sarebbe già la voce di un secondo libro, se non il seguito quantomeno ambientato nello stesso mondo, ma questo non toglie che Warbreaker sia una storia con un inizio e una fine. Ed era anche disponibile gratuitamente in formato digitale: ma l'ho scoperto dopo aver acquistato il cartaceo.
Ho trovato interessante il sistema magico basato sul Respiro (Breath) e sul Colore. Il Respiro (che è un po' anima, un po' forza vitale, un po' energia magica) ha una strana caratteristica: le persone nel mondo di Warbreaker possono venderlo o accumularlo. Chi se ne priva vive un'esistenza meno piena e felice, ma non muore (per le divinità il discorso è diverso). Chi ne accumula in grande quantità percepisce meglio il mondo, vive meglio e più a lungo, e soprattutto può sfruttare il Respiro (e il Colore) per animare (Awakening) certe categorie di oggetti e anche animali o persone morte, in modo da far loro compiere azioni (piuttosto semplici). Il sistema magico è estremamente dettagliato (vi è dedicata anche un'appendice), a livello di regolamento di gioco di ruolo. Riferimenti molto tecnici anche nei dialoghi, ecc... in fondo anche un po' noiosi. Io ho sempre pensato che possedere la formazione e la mentalità da arbitro di GDR possa aiutare ad essere rigorosi nel far funzionare le proprie invenzioni fantastiche, ma ritengo anche che si dovrebbe mimetizzare un po' queste strutture e mantenere il "sende of wonder" del magico e del fantastico. A ciascuno il suo punto di vista, comunque.
Quanto all'ambientazione, abbiamo due potenze rivali. Idris è un debole regno sulle montagne, rifugio di una casa regnante decaduta a causa di una guerra civile; i membri di questa casata hanno dei poteri misteriosi, ma rifiutano la magia del Colore e del Respiro, infatti tutti gli abitanti si vestono di grigio, bianco e nero, e vivono un'esistenza spartana. Hallandren al contrario è un diluvio di colore e anche di pacchianeria, e ospita una magia così potente che alcuni individui (i Returned, morti che resuscitano in virtù di un fenomeno misterioso) la comandano in funzione di divinità: pubbliche, accessibili al popolo, avide del Respiro che si fanno donare dal popolo stesso, ma controllate a loro volta da una casta di preti il cui ruolo appare subito ambiguo. E' una città al centro di un dominio potentissimo, in una pianura torrida dove cresce la giungla.
Insomma è l'antitesi di Idris. Il peggio è che la casa regnante di Idris fuggì proprio da qui. Idris tuttora rivendica la sovranità su Hallandren, e viceversa.
Scoppiasse una guerra non ci sarebbe storia, perché l'esercito di Hallandren, composto di Lifeless (morti rianimati con il Respiro, trasformati in soldati fortissimi che non hanno bisogno di mangiare e dormire) non ha rivali. Hallandren vuole che il figlio del proprio Dio-Re (il più forte dei Returned) torni ad avere il sangue della casa reale e ha preteso dalla casata di Idris l'invio di una principessa come sposa. Ciò darà l'avvio ai fatti raccontati nel libro.
Non so cosa avrete capito dalla mia esposizione, diciamo, in parole povere, che l'ambientazione è ricca, il sistema magico interessante, e c'è un sacco di politica e di intrigo. Ci sono diversi personaggi che arricchiscono il proprio eloquio con capolavori di raffinata ironia. Magari anche troppa? A volte stucchevole, sì, ma il dio Lightsong è uno spettacolo ogni volta che compare nelle pagine.Viste queste premesse avevo cominciato a leggere il primo centinaio di pagine con entusiasmo, proseguendo purtroppo ho incontrato delle incongruenze a mio parere vistose, delle debolezze nella storia, un'eccessiva prolissità: difetti che sprecano molto di quello che Warbreaker avrebbe potuto essere.
Qui ci fermiamo se non avete letto il libro; infatti nel prosieguo del post rivelo parte della trama e faccio delle considerazioni che non potete valutare senza aver letto Warbreaker, a cui dò una valutazione finale di sufficienza; ma se siete di gusti meno difficili dei miei, potrebbe piacervi, e magari anche parecchio. In inglese, non ho trovato una recensione negativa che sia una, anzi l'entusiasmo è dilagante.
Innanzitutto mi spiace che ci siano delle incongruenze e che i personaggi siano, spesso, poco delineati. E qualcuno non funziona proprio. La parte che ho trovato meno digeribile è quella di Vivenna, la sorella "prescelta" per il matrimonio col Dio, e poi delusa perché è stata lasciata a casa. Dovrebbe essere seria, studiosa, intelligente, virtuosa, preparata. Ovviamente il contatto con la società di Hallandren è uno shock, ma non giustifica il comportamento superficiale e stupido della donna, che si lascia traviare dai mercenari (falsi amici) dell'agente segreto Lemex di cui lei si fidava (a proposito, non si capisce nemmeno come Denth e compagni abbiano infinocchiato Lemex...). La principessa non prende il controllo delle operazioni e si limita a diventare un pupazzo (ben vestito) di Denth. Perde di vista i due obiettivi strettamente connessi con cui è arrivata alla capitale avversaria, salvare la sorella Siri ed evitare la guerra. Diventa preponderante quello che era l'obiettivo in subordine, danneggiare l'apparato militare di Hallandren. L'autore cerca di motivare queste irrazionalità ma di fatto contrastano con la logica, il personaggio e l'estrema gravità della missione (ad es. Sanderson cerca di spiegarci che Vivenna ritiene la guerra inevitabile ma in effetti la principessa non ha modo di verificarlo e si fida di quello che le viene imbandito, senza cercare verifiche). Quanto a salvare Siri, Vivenna riesce solo a vederla una volta da lontano e poi anziché agire per salvarla, la mette in pericolo con le sue azioni.
Quando Denth porta Vivenna in giro a cospirare per seminare malcontento fra gli abitanti di Idris espatriati in Hallandren, lei presto apprende che la presenza di una "principessa di Idris" che congiura contro il potere è ormai nota. Eppure prosegue: anzi cominciano dei sabotaggi contro la città di Hallandren. Vivenna non si preoccupa più delle conseguenze che le sue azioni possono avere su Siri. Non cerca di capire se potrebbe mantenere la pace. Insomma Sanderson ce la presenta come una persona intelligente e di rigidi principi (magari un po' bacchettona) e poi la fa comportare come una sciocca isterica, travolta dall'odio, avventata, ingenua e facilmente manipolabile.
Quando poi passa dalla parte di Vasher, Vivenna fa una specie di tour propagandistico "al contrario" per cercare di calmare gli animi ed evitare il conflitto, e rimangiarsi le prediche bellicose di prima. Qui si va un po' sul ridicolo: per via delle sue esortazioni alla guerra erano intervenuti i soldati, diversa gente ci ha già lasciato la pelle! Quale credibilità potrebbe avere Vivenna a questo punto? Dopo una figura del genere perfino un politico italiano deve eclissarsi per qualche tempo. Sarebbe realistico che Vivenna se ne stesse zitta, tornasse a casa o comunque si rendesse meno visibile.
Incredibile anche il fatto che, sporcandosi un po' i capelli e i vestiti, Vivenna viva da senzatetto per alcune settimane, e solo un uomo la riconosce nel quartiere dei suoi connazionali.
Insomma, negli intrighi politici di Warbreaker non manca l'ingenuità e per quanto riguarda la coerenza logica di certi avvenimenti non sono convinto al cento per cento.
Il finale invece è abbastanza bello ma parecchio tirato via su diversi aspetti (ad es. non ricompare il re di Idris) ed è un peccato, in un libro che non ha certo lesinato sulle pagine e sulle parti superflue.
Fatta questa premessa non potevo perdermi Warbreaker, un libro autoconclusivo (per ora non uscito in italiano) che poteva permettermi di assaggiare l'opera di Sanderson senza beccarmi una trilogia. A dire il vero ci sarebbe già la voce di un secondo libro, se non il seguito quantomeno ambientato nello stesso mondo, ma questo non toglie che Warbreaker sia una storia con un inizio e una fine. Ed era anche disponibile gratuitamente in formato digitale: ma l'ho scoperto dopo aver acquistato il cartaceo.
Ho trovato interessante il sistema magico basato sul Respiro (Breath) e sul Colore. Il Respiro (che è un po' anima, un po' forza vitale, un po' energia magica) ha una strana caratteristica: le persone nel mondo di Warbreaker possono venderlo o accumularlo. Chi se ne priva vive un'esistenza meno piena e felice, ma non muore (per le divinità il discorso è diverso). Chi ne accumula in grande quantità percepisce meglio il mondo, vive meglio e più a lungo, e soprattutto può sfruttare il Respiro (e il Colore) per animare (Awakening) certe categorie di oggetti e anche animali o persone morte, in modo da far loro compiere azioni (piuttosto semplici). Il sistema magico è estremamente dettagliato (vi è dedicata anche un'appendice), a livello di regolamento di gioco di ruolo. Riferimenti molto tecnici anche nei dialoghi, ecc... in fondo anche un po' noiosi. Io ho sempre pensato che possedere la formazione e la mentalità da arbitro di GDR possa aiutare ad essere rigorosi nel far funzionare le proprie invenzioni fantastiche, ma ritengo anche che si dovrebbe mimetizzare un po' queste strutture e mantenere il "sende of wonder" del magico e del fantastico. A ciascuno il suo punto di vista, comunque.
Quanto all'ambientazione, abbiamo due potenze rivali. Idris è un debole regno sulle montagne, rifugio di una casa regnante decaduta a causa di una guerra civile; i membri di questa casata hanno dei poteri misteriosi, ma rifiutano la magia del Colore e del Respiro, infatti tutti gli abitanti si vestono di grigio, bianco e nero, e vivono un'esistenza spartana. Hallandren al contrario è un diluvio di colore e anche di pacchianeria, e ospita una magia così potente che alcuni individui (i Returned, morti che resuscitano in virtù di un fenomeno misterioso) la comandano in funzione di divinità: pubbliche, accessibili al popolo, avide del Respiro che si fanno donare dal popolo stesso, ma controllate a loro volta da una casta di preti il cui ruolo appare subito ambiguo. E' una città al centro di un dominio potentissimo, in una pianura torrida dove cresce la giungla.
Insomma è l'antitesi di Idris. Il peggio è che la casa regnante di Idris fuggì proprio da qui. Idris tuttora rivendica la sovranità su Hallandren, e viceversa.
Scoppiasse una guerra non ci sarebbe storia, perché l'esercito di Hallandren, composto di Lifeless (morti rianimati con il Respiro, trasformati in soldati fortissimi che non hanno bisogno di mangiare e dormire) non ha rivali. Hallandren vuole che il figlio del proprio Dio-Re (il più forte dei Returned) torni ad avere il sangue della casa reale e ha preteso dalla casata di Idris l'invio di una principessa come sposa. Ciò darà l'avvio ai fatti raccontati nel libro.
Non so cosa avrete capito dalla mia esposizione, diciamo, in parole povere, che l'ambientazione è ricca, il sistema magico interessante, e c'è un sacco di politica e di intrigo. Ci sono diversi personaggi che arricchiscono il proprio eloquio con capolavori di raffinata ironia. Magari anche troppa? A volte stucchevole, sì, ma il dio Lightsong è uno spettacolo ogni volta che compare nelle pagine.Viste queste premesse avevo cominciato a leggere il primo centinaio di pagine con entusiasmo, proseguendo purtroppo ho incontrato delle incongruenze a mio parere vistose, delle debolezze nella storia, un'eccessiva prolissità: difetti che sprecano molto di quello che Warbreaker avrebbe potuto essere.
Qui ci fermiamo se non avete letto il libro; infatti nel prosieguo del post rivelo parte della trama e faccio delle considerazioni che non potete valutare senza aver letto Warbreaker, a cui dò una valutazione finale di sufficienza; ma se siete di gusti meno difficili dei miei, potrebbe piacervi, e magari anche parecchio. In inglese, non ho trovato una recensione negativa che sia una, anzi l'entusiasmo è dilagante.
Innanzitutto mi spiace che ci siano delle incongruenze e che i personaggi siano, spesso, poco delineati. E qualcuno non funziona proprio. La parte che ho trovato meno digeribile è quella di Vivenna, la sorella "prescelta" per il matrimonio col Dio, e poi delusa perché è stata lasciata a casa. Dovrebbe essere seria, studiosa, intelligente, virtuosa, preparata. Ovviamente il contatto con la società di Hallandren è uno shock, ma non giustifica il comportamento superficiale e stupido della donna, che si lascia traviare dai mercenari (falsi amici) dell'agente segreto Lemex di cui lei si fidava (a proposito, non si capisce nemmeno come Denth e compagni abbiano infinocchiato Lemex...). La principessa non prende il controllo delle operazioni e si limita a diventare un pupazzo (ben vestito) di Denth. Perde di vista i due obiettivi strettamente connessi con cui è arrivata alla capitale avversaria, salvare la sorella Siri ed evitare la guerra. Diventa preponderante quello che era l'obiettivo in subordine, danneggiare l'apparato militare di Hallandren. L'autore cerca di motivare queste irrazionalità ma di fatto contrastano con la logica, il personaggio e l'estrema gravità della missione (ad es. Sanderson cerca di spiegarci che Vivenna ritiene la guerra inevitabile ma in effetti la principessa non ha modo di verificarlo e si fida di quello che le viene imbandito, senza cercare verifiche). Quanto a salvare Siri, Vivenna riesce solo a vederla una volta da lontano e poi anziché agire per salvarla, la mette in pericolo con le sue azioni.
Quando Denth porta Vivenna in giro a cospirare per seminare malcontento fra gli abitanti di Idris espatriati in Hallandren, lei presto apprende che la presenza di una "principessa di Idris" che congiura contro il potere è ormai nota. Eppure prosegue: anzi cominciano dei sabotaggi contro la città di Hallandren. Vivenna non si preoccupa più delle conseguenze che le sue azioni possono avere su Siri. Non cerca di capire se potrebbe mantenere la pace. Insomma Sanderson ce la presenta come una persona intelligente e di rigidi principi (magari un po' bacchettona) e poi la fa comportare come una sciocca isterica, travolta dall'odio, avventata, ingenua e facilmente manipolabile.
Quando poi passa dalla parte di Vasher, Vivenna fa una specie di tour propagandistico "al contrario" per cercare di calmare gli animi ed evitare il conflitto, e rimangiarsi le prediche bellicose di prima. Qui si va un po' sul ridicolo: per via delle sue esortazioni alla guerra erano intervenuti i soldati, diversa gente ci ha già lasciato la pelle! Quale credibilità potrebbe avere Vivenna a questo punto? Dopo una figura del genere perfino un politico italiano deve eclissarsi per qualche tempo. Sarebbe realistico che Vivenna se ne stesse zitta, tornasse a casa o comunque si rendesse meno visibile.
Incredibile anche il fatto che, sporcandosi un po' i capelli e i vestiti, Vivenna viva da senzatetto per alcune settimane, e solo un uomo la riconosce nel quartiere dei suoi connazionali.
Insomma, negli intrighi politici di Warbreaker non manca l'ingenuità e per quanto riguarda la coerenza logica di certi avvenimenti non sono convinto al cento per cento.
Il finale invece è abbastanza bello ma parecchio tirato via su diversi aspetti (ad es. non ricompare il re di Idris) ed è un peccato, in un libro che non ha certo lesinato sulle pagine e sulle parti superflue.